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17/02/10
mercoledì delle ceneri
Cari tutti,
spero che stiate bene.
E’ un inverno cupo per me, questo. Pieno di lutti, malattie gravi e talvolta terminali per le persone che mi circondano e quindi – indirettamente - anche per me. In un primo tempo sono rimasta piuttosto perplessa di fronte a questa ecatombe che vedevo muoversi intorno. Ero stupita, stordita, non capivo il senso. Sembrava che ci fosse un messaggio ripetuto ma non capivo come potesse riguardarmi.
La risposta non ha tardato.
Dapprima si è ammalato mio marito. Abbiamo temuto per qualcosa di serio: attendiamo conferma di smentita. Primo shock.
Poi è arrivata la malattia per me. Nulla di eccezionale, ma il mio sistema immunitario risponde con i tempi suoi e mi ha costretta ad un periodo di sosta forzata che ormai dura da almeno un mese (e che grazie al Cielo sembra volgere al termine). In certi momenti sia mio marito sia io abbiamo temuto per la mia sopravvivenza e questo è stato il secondo shock.
Causa la debolezza della malattia abbiamo chiesto aiuto per le pulizie di casa ad una signora la quale, chiacchierando del più e del meno, mi racconta che da giovane è rimasta vedova con figli piccoli. Poi, nel tempo, ha trovato altri compagni che sono tutti morti dopo non molto. Erano più vecchi di lei - si è detta - e ne ha trovato uno più giovane. Anche lui, purtroppo, si avvia per la strada dei predecessori (vi vedo già che correte disperati a cercare ferro o che allungate con non curanza una mano sui "gioielli di famiglia"!).
L’ultima ieri sera. Mi chiama un’amica il cui marito era malato. Li avevo incontrati in autunno e mi sembrava che stesse decisamente meglio! Poi, per una serie di ragioni non ci siamo più sentiti e ieri sera la notizia che suo marito è morto.
Tutto questo per dire cosa?
Per condividere un pensiero che mio marito ed io ci siamo scambiati appena lo spavento più grosso ci ha lasciati:
siamo proprio fortunati.
Abbiamo veramente così tanto dalla vita.
Ogni mattina che ci svegliamo dopo una lunga o breve notte è un miracolo. Non è affatto scontato.
Ogni sera che ci corichiamo dopo una lunga giornata è un miracolo, non accade a tutti questa fortuna.
Allora ci siamo accorti che buttiamo le energie nel disperarci o nel desiderare e ricercare quello che non c’è (per noi i figli, per esempio) quando abbiamo avuto la fortuna di incontrarci, di incontrare l’Amore della nostra vita. Siamo insieme ed è un miracolo che ci siamo trovati!
Abbiamo avuto la fortuna di nascere e di crescere in una famiglia (ancorché a tratti un po’ sgangherata).
Abbiamo avuto la fortuna di studiare. Di crescere in un Paese grossomodo libero dove non è praticata la tortura e dove puoi permetterti di essere bella senza temere per la tua vita. In un Paese con libertà di religione ed anche di pensiero e di espressione. Con la sanità pubblica che, per quanto sfasciata sia, permette a chiunque di ricevere le cure minime… Un Paese ospitale, con il sole che non distrugge ed il gelo che non stritola, l’acqua a portata di mano… insomma, veramente una quantità di fortune che tantissimi nel mondo non hanno.
Il desiderio che ne nasce è quello di fare la mia parte là dove mi è concesso, condividendo ogni giorno il “pane quotidiano” che Dio mi dona: i miei talenti e le mie capacità, quello che vedo e che so. Anche la mia preghiera, certo.
Il desiderio che ne nasce è quello della pace del cuore.
Provo ad immaginare cosa sarebbe non un giorno senza di lui (questo è facile, è come un giorno di vacanza!): provo ad immaginare le settimane, i mesi e gli anni senza di lui. Cielo, come non soccombere alla mancanza! Deve essere un dolore immenso.
Ed i giorni insieme non sappiamo quanti saranno.
Uno pensa ai cinquanta anni, ma non per tutti è così. Ed anche se ci arrivi (anzi, a maggior ragione se ci arrivi), l’altro è diventato così tanto parte di te, della tua pelle, del tuo quotidiano borbottio, che senza sei perso. Ho visto due vecchietti vicino casa. Brontolavano sempre. Quando lui è morto lei ha perso la lucidità e poi l’autonomia, e poi…
Ma questo è per tutte le relazioni, mica solo per il marito! Vale per i figli, per i genitori, i parenti, gli amici, i vicini di casa o i conoscenti.
Che resta dopo quando l’altro se ne va, quando muore?
Resta il dispiacere di un incontro mancato, il senso di colpa per la pace non fatta, la mancanza di pace per l’amore non detto. Magari mascherati da rabbia (perché io ne sono proprio convinta che più grande è l’odio, più è grande la ferita, più forte è l’amore che c’è sotto).
Allora mi chiedo se non sia importante, dopo una litigata (che è giusto che ci sia), rimettere le cose nella giusta prospettiva ed incontrarsi, fare pace. Non perdere tempo dietro troppa timidezza o riservatezza e sbilanciarsi ad incontrare l’altro con il proprio cuore. Dare un calcio all’orgoglio ed alle paure e permettersi di vivere con gli altri. Di lasciarli entrare, anche.
Sono contenta di aver avuto l’occasione di guardare in faccia la mia rabbia verso mia madre nel corso dei seminari di Arkeon e di poter ora accedere e condividere l’amore che ho per lei. Non cambia ciò che lei è, né quello che sono io. Non cambia le sue scelte o non scelte né le mie. Però, nonostante la fatica di quegli anni, sono contenta che sia stato possibile.
Guardo con tenerezza mia madre. Lei non ha fatto pace con la sua quando questa era viva. Così quando è morta ne ha rivestito i panni per il senso di colpa. Per senso di colpa ha cercato di rinunciare all’amore dei suoi figli... Mi dispiace così tanto per quel tempo perso…
Fin da bambina mi domandavo perché mi facesse gli stessi torti che sua madre aveva fatto a lei e che l’avevano fatta soffrire. Poi ho visto che lo stesso ha fatto mia sorella maggiore: da un giorno all’altro ha cominciato a parlare ed a fare le stesse identiche cose che detestava in nostra madre (e che obiettivamente aveva ragione di deprecare!).
Credo che sia perché non l’ha mai perdonata ma nemmeno se n’è mai staccata. Non ha mai dialogato (per quello che si poteva) con lei. Alla fine delle due l’una: o nonostante l’amore immenso la odiava e cercava di “sradicarla” dal suo cuore - perché continuava a vedere il male che le faceva ritenendo di non poterne parlare- , o la incarnava potendo finalmente amarla senza odio - perché uguale a lei.
Sono proprio fortunata.
E ringrazio Dio.
(e me stessa che ho fatto la mia parte)
07/04/09
Martedì 07 Aprile 2009
Cari tutti,
ho una forte perplessità etico-metodologica: le “punizioni”.
Io ho sempre avuto il terrore sacro di sbagliare. Quando capitava in famiglia ero duramente sanzionata soprattutto a livello psicologico. Sbagliare era il peggio che mi potesse capitare: senso di esclusione dalla “cerchia dei figli amati”, mi veniva detto che gli esterni alla famiglia mi avrebbero vista ridicola, una sciocca. Alle volte erano sonore sculacciate o l’esclusione si manifestava nell’allontanamento dagli altri con la classica “punizione”.
Dopo molti anni in cui vivo da sola l’ansia di non sbagliare ancora mi blocca e mi perseguita, ma grazie a Dio non più così tanto. Chi mi è vicino non solo accoglie con amore i miei errori ma alle volte nemmeno ci dà peso!
Errare Humanum Est ( …sed perseverare, diabolicum!)
L’omeopata al quale mi rivolgo per la cura della mia salute un giorno mi disse una cosa che ai più sembrerà scontata ma a me fece versare tante lacrime: siamo a questo mondo per imparare.
E poiché sbagliando si impara, sbagliare è lecito. E’ “normale” per noi che siamo a questo mondo.
Beh, mi ha aperto il cuore e Lo ringrazio ancora oggi.
Sbagliare mi riesce benissimo. E’ il sentirsi umani e non “sbagliati” quando lo si fa che mi mancava. Una specie di autorizzazione, se vogliamo!
Ecco il punto. E’ inevitabile che i bambini piccoli, messi insieme ai loro simili, non sappiano bene come comportarsi. Vogliono entrare in relazione con gli altri o li vogliono tenere a distanza ma magari il linguaggio non è ancora ben sviluppato! O peggio: il linguaggio c’è ma c’è l’imbarazzo nel usarlo: non è abbastanza immediato! Poi magari la creaturina tende ad essere esagitata, ad avere poco controllo dei movimenti, a lasciare uscire un rancore che porta dentro per la nascita di un fratellino[1] piccolo o per qualsiasi altro motivo… e la frittata è fatta: il morso, lo schiaffo, la manata, la torre meravigliosa distrutta, un oggetto tirato in testa… Il repertorio è vario ed arriva fin dove spazia la fantasia di un bambino.
La prima reazione di molti adulti è soccorrere il bambino che piange, consolarlo, scoprire qual è il punto che gli duole (e medicarlo) e, sgridando il compagno, metterlo in un angolo da solo in punizione.
I bambini temono moltissimo questa cosa e funziona da deterrente in maniera eccezionale: non osano nemmeno chiedere di andare in bagno se sanno che la maestra in quel momento non vuole e rischiano una punizione.
Wow, che bello! lo faccio anch’io, così vivo più serena!
Secondo me l’effetto collaterale è invece grande.
- Se punisco tutto nella stessa maniera tutto diviene della stessa gravità.
- In punizione tipicamente vanno sempre “i soliti” che finiscono per essere i più nominati dalle insegnanti come esempio negativo e quindi stigmatizzati e lasciati da parte dai compagni (l’ho visto con i miei occhi e sentito con le mie orecchie).
- Se intervengo senza appurare la ragione del gesto mi perdo metà della luna. A volte è il bimbo che piange disperato quello che ha “fatto un torto” al quale è seguita una reazione (sproporzionata o non appropriata, certo, ma pur sempre) di difesa.
Stiamo parlando di bambini ma spesso capita anche a noi “grandi” per cui in teoria possiamo capire!
- Da grandi, infine, quando un tale sistema educativo si sarà sedimentato nel loro modo di pensare ed agire, come vivranno gli errori (inevitabili perché nessuno è perfetto)? Come interpreteranno le sanzioni (una multa per esempio) in cui incorreranno? Come saranno sentite le leggi dello Stato o i comandamenti di Dio? Una guida per vivere in pace con gli altri o l’ennesimo muro che rischia di crollare loro addosso se non stanno attenti?
Nella mia (poca) esperienza ho trovato sufficiente spiegare con parole semplici gli errori e le ragioni di entrambi, chieder loro l’impegno di non farlo più, far fare pace con delle scuse reciproche (che sanano moltissimo!) e tutto riparte meglio di prima.
Qualche tempo fa è accaduto un fatto per me molto tenero. Come già detto prima uso il maschile non necessariamente perché fossero due maschi i soggetti coinvolti nella dinamica.
Due bimbi (A e B) seduti uno accanto all’altro di età poco differente. Volevano giocare nonostante non fosse il momento e li avessi richiamati già più volte. Ad un certo punto sento A piangere disperato: l’amico, più timido, gli aveva dato un bel morso… la mia collega, alla quale stavo affidando per le cure il malcapitato, si volta verso B e, con voce tonante, lo minaccia della punizione che si appresta a mettere in atto. Siccome in quel momento gestivo io i bambini glie lo sottraggo con una scusa e la tranquillizzo dicendole che lo avrei fatto sedere sulla sedia delle insegnanti.
La povera creaturina era nervosissima: occhi sbarrati e semi-fissi a dispetto delle mani e delle gambe che non stavano ferme un attimo. Mi sono avvicinata in posizione più bassa della sua e gli ho chiesto più volte la ragione del gesto ma… nessuna risposta. Siccome è un’abitué delle botte ai compagni (e gli rendo merito che stava rarefando moltissimo gli episodi) gli ho ripetuto il mantra che fa male ai suoi amici in quel modo, che poi non vogliono più giocare con lui (è vero), che è un bambino in gamba ed è un peccato che si comporti così e via dicendo.
Pian piano mi ha rivelato che… voleva solo giocare!
Allora vai a fargli capire che i cagnolini e gli animali giocano mordendosi ma che i bambini giocano in un altro modo! …alla fine l’ho lasciato un po’ a riflettere sul senso dell’accaduto ed a fare una scelta su come avrebbe provato a comportarsi: mi avrebbe avvisata quando aveva “pensato”.
Così è stato. Ha chiesto scusa ad A il quale le ha accettate ed ha coperto il morso fino ad allora lasciato esposto fuori dalla maglietta. Tutto guarito.
Speriamo bene.
Concludendo: cosa sarebbe servito “punirlo” per l’errore? Stava imparando! E’ una lunga strada che sta percorrendo e dove inciampa più o meno frequentemente.
La mia collega mi mise in guardia che quel bambino dice le bugie: secondo me la paura fa mentire molto di più…
Come “insegnante” il mio compito non è “insegnarti” soprattutto a conoscerti ed a scegliere?
Diverso è forse il discorso se vedo che, deliberatamente, per sfida o cattiva intenzione fai del male…
A me sembra di insegnare che “sei sbagliato” se ti punisco o ti ripeto sconsolata che “sei sempre il solito”! Dov’è la possibilità di evoluzione e miglioramento? Dov'è il sanzionare il gesto e non chi lo compie?
…Non nego però che mi interessa conoscere le ragioni di chi usa il sistema delle punizioni: un confronto onesto penso che mi potrebbe aiutare moltissimo anche professionalmente.
Grazie.
[1] Perdonatemi: qui ed in tutti i post adopero il maschile secondo l’uso generico della grammatica italiana e non riferendomi o riportando il caso di un maschio piuttosto che di una femmina.
25/03/09
Mercoledì 25 Marzo 2009
Cari tutti,
riporto una poesia di Bruno Tognolini che trovo decisamente bella anche se non semplicissima. A mio parere tocca corde della relazione tra chi insegna e chi apprende che non suonano solo per maestro-discente ma anche per genitore-figlio. A tutti noi la offro:
“Maestra insegnami il fiore e il frutto.
Col tempo ti insegnerò tutto.
Insegnami fino al profondo dei mari.
Ti insegnerò fino a dove tu impari.
Insegnami il cielo più che si può.
Ti insegno fino dove io so.
E dove non sai?
Da lì andiamo insieme.
Maestra e scolaro
dall’albero al seme
insegno ed impara
insieme perché
io insegno se imparo con te.”
(Bruno Tognolini)
Buona notte.
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