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09/05/09

10 maggio 2009
"Mia cara mamma,
mi sento più buono
se ad ogni mio errore
mi insegni il perdono.
Io ti ringrazio perché mi hai curata,
io ti ringrazio perché sono nata.
In ogni tuo sguardo
io imparo chi sono:
mia cara mamma,
sei proprio un bel dono!"
(Pulvis)
Un abbraccio grande a tutte le madri... ed a quelle che - come me - vorrebbero esserlo e forse un po' lo sono...

02/04/09

Giovedì 02 Aprile 2009
Cari tutti, riporto qui per intero (perché per me è importante farlo), un commento che ho lasciato su un blog che ho visitato di recente ad un post del 13/03/2009 intitolato "Dalla crisi della maternità alla questione filiale". “Caro Sudore&Pioggia, mi permetto di condividere con Te e con chi siede in questo cerchio con noi, ora, alcuni “ma…” in merito a quanto da te scritto. Chiedo scusa in anticipo per la lunghezza del testo. 1) Conosco molte donne (collaboratrici domestiche, sportelliste, segretarie, contabili, infermiere,…: impieghi comuni di medio livello…) che vivono il loro lavoro non come rivalsa sul maschile ma come sostegno per la loro famiglia. Forse per un osservatore esterno questo contributo non è economico come talvolta noi lavoratrici crediamo ma consiste più nel nostro benessere psichico che può derivare dall’impellenza di un’ulteriore espressione che non riesce ad esaurirsi tra le mura domestiche, dalla paura di essere un peso (…ed io ne so qualcosa) o di essere troppo dipendenti o ancora di “spegnersi il cervello” o buttare anni di studio pagati a caro prezzo dalla famiglia di origine… ma comunque alla base non c’è il conflitto o la rivalsa sul coniuge: c’è il “fare la propria parte”… forse questa scelta merita rispetto nonostante tutto. 2) E’ molto carina la storiella Zen di quel monaco che tutte le notti era tormentato da un mostruoso e pericolosissimo ragno con il quale ingaggiava un’estenuante lotta. Un giorno chiese aiuto al suo maestro che gli suggerì, al ripresentarsi del nemico, di prendere un pennello e disegnargli un cerchio sulla pancia… E la mattina seguente trovò un bel cerchio disegnato intorno al proprio ombelico!!! Talvolta temo che facciamo proprio così tutti quanti: carichiamo chi più ci è vicino di paure e proiezioni solo nostre. A seconda di come viviamo la coppia ed il lavoro domestico o fuori casa, il mantra sarà “stai a casa, i figli prima di tutto!” o “mantieni la tua indipendenza, cercati un lavoro”. La responsabilità di ciascuno, secondo me, è tenere ben ferma nella memoria e nella carne la traccia del proprio vissuto e cercare, nel limite delle nostre capacità, non solo di comprendere da dove viene, ma anche di sciogliere la catena e non scaricarlo a valle ripetendolo. Le famiglie di origine – come pure noi, se non ci prestiamo attenzione - resistono a qualunque cambiamento che vada in direzioni sconosciute o non sperimentate. E’ il “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova!” E’ un istinto di sopravvivenza che ha custodito la razza umana fino ad oggi. In realtà forse ciascuno deve solo avere la libertà di precorrere la propria strada, di sperimentarsi senza che questo gravi sugli altri. 2 ½) …Se una donna “si realizza” nella cura della prole non corre il rischio di riporre su di loro troppe aspettative, troppa l’attenzione? Diventa troppo il bisogno che quella dedizione porti frutto! E’ il frutto che io mi aspetto per sentirmi realizzata, perché quella mia “dedizione” non sia stata vana, non quello che la piantina di fronte a me può realmente dare… E quando i figli iniziano ad avere un fisiologico bisogno del loro spazio che rimarrà di quelle devote madri? Che sentimenti condiranno il nutrimento che porta in tavola la sera? Riuscirà a lasciare aprire le ali? O di qua e di là passerà più o meno criptato il “non mi lasciare sola, io ti ho fatto per me!” (che purtroppo ho sentito spesso dire alle madri di una volta che erano obbligate a stare a casa…) Forse a quel punto è meglio una madre un po’ meno presente ma che si realizza da se stessa… Io ho tentato di farlo tramite mio marito, e per fortuna che me ne sono accorta in tempo perché stavo sfasciando la mia famiglia. Non oso immaginare che succede se capita con un bambino! Per inciso: forse anche ai padri può capitare qualcosa di simile (penso a quelli che desiderano e/o premono più o meno apertamente perché la progenie imbocchi un corso di studio piuttosto che un altro o sposi una donna piuttosto che un’altra…) 3) Pensa che meraviglia se davvero fosse l’intera Società a prendersi carico dei bambini, a considerare se stessa (perché questo sono i bambini: noi stessi solo un po’ di tempo fa) un tesoro prezioso di cui avere cura: quello che io madre/padre non so o non posso darti non ti verrà a mancare perché ci saranno altri che lo sanno e lo possono fare… e così lo dono anche a me stessa. Forse sarebbe un volerci un poco più bene, no? 4) Esiste l’“istinto materno” inteso come quella spinta innata ed istintiva di ogni donna a prendersi cura della prole? Per la mia piccola esperienza la paternità e la maternità mi paiono più come stati mentali che non sempre vengono a ruota dopo il parto: non tutte le donne che vedo generare un figlio sono o sono-portate-per-essere madri. Capita, alle volte, che procreiamo solo per mettere una tacca nell’elenco delle esperienze di una vita o perché ci è capitato. Alle volte semplicemente scegliamo di non mettere le mani in quello che la creaturina appena uscita dalla nostra pancia porta fuori con sé. Non farlo forse è una scelta che, per quanto dolorosa per chi la subisce, va rispettata: a torto o a ragione ci mantiene sufficientemente in equilibrio. In questo senso trovo un’ipocrisia il “prima era più bello!” Penso alle epoche precedenti: c’erano i pedagoghi, le bàlie e le nutrici. C’erano delle nonne o zie o sorelle più o meno portate per l’accudimento dei pargoli che lo facevano per le donne che erano nei campi o alle feste. C’erano i collegi ed i conventi. Ci sono gli asili e le tate. Dov’è quindi lo scandalo? Provo a calarmi nei panni di una donna che (nel caso peggiore) ha semplicemente “la smania del successo” e che per caso o per esperienza è incinta: se fossi costretta a stare in casa a prendermi cura di lui/lei (“per colpa sua”) o abortirei finché mi è possibile o forse gli lascio una buona possibilità se trovo per lui/lei un ottimo asilo otto ore al giorno. Sempre meglio che una pessima madre (per giunta che magari va fuori di testa) otto ore al giorno! Magari quella pessima madre è un ottimo medico o un’ottima manager! 4 ½) Una cosa bella è che mi è anche capitato di incontrare degli splendidi Padri che riescono (seppure con la sofferenza di chi cammina con una gamba sola) a supplire all’assenza più o meno deliberata della moglie (che amano moltissimo) attingendo anche al loro istinto materno… Nonostante il pregiudizio delle altre donne i loro figli sono molto equilibrati. In fondo, forse, è la stessa sofferenza di quelle Madri che fanno anche da padre! 5) Mi rendo conto che, per una digiuna di bambini e dei loro meccanismi, trovarsi “madre”, sola in casa perché il marito è al lavoro, con la responsabilità di provvedere ad una vera e propria “idrovora di attenzione ed energie” deve essere traumatico. Chi può biasimarla se fugge a gambe levate lasciando la creatura a qualcun altro? Sembra di non poter staccare mai, che “se io non ci sono muore”: non lascia nemmeno il tempo per una doccia!... E poi quel pianto perfora i timpani e squarta la pancia. Riesce a sfondare la barriera del suono per non so quanto tempo con una forza ed una resistenza che non si capisce da dove vengano fuori visti i pochi centimetri di lunghezza! Mi sono fatta l’idea che sia la paura del bambino che viene fuori tramite le nostre labbra, come se fossero dei ventriloqui e noi il loro pupazzo. Tant’è ce ne facciamo risucchiare. Alle volte è per questioni organizzative, altre per inesperienza. Altre perché non si può accettare quel sano distacco che consente la lucidità: che ricorda a noi che dovremmo essere gli adulti, i “sopravvissuti” a quella originaria paura, che non siamo indispensabili. Che non si muore per 5’ di attesa o per un “no”. Che anche venti minuti di pianto per un desiderio non realizzato non uccidono nessuno se accanto a quella fermezza c’è l’accoglienza del dolore dell’altro. Forse sono questi i famosi “no” che fanno crescere di cui tanto parlano gli specialisti! Mi viene sempre in mente quell’espressione “medico pietoso non guarisce l’ammalato” che è ancora più chiara nell’accezione più colorita: “medico pietoso fa la piaga purulenta!” Le mamme sono trascurate: - io ero trascurata anche prima dell’arrivo dei figli o perché davo priorità ad altro o per motivi miei. I figli non credo che mi cambino in meglio… Forse possono diventare un alibi per la mia trascuratezza (ammesso che io la percepisca come tale)! - io mi curavo prima dei figli, era importante per me per essere in pace con me stessa, per amarmi. Forse ho “cambiato programma” e non sto più vivendo la mia vita ma mi sto immedesimando in quella di qualcun'altra dalla quale ho appreso l’equazione madre= trascuratezza! … ma non è affatto detto! Non credo che saranno i figli a non permettermi di amarmi perché non posso dare/insegnare ad altri quello che non ho/non so. Veramente ritengo che molto dipenda dalla mia intenzione… e poi i modelli della TV, delle passerelle e delle riviste non sono necessariamente quelli delle strade. Siamo noi che abbiamo il telecomando in mano, non viceversa… anche se - lo so - è istintivo e molto più comodo dare la responsabilità agli altri… L’importante è che io sia me stessa e stia bene con me stessa. A quel punto con gli altri tutto è un po’ più facile! 6) Infine eccomi. Io sono stata sia lavoratrice per altri, sia esclusivamente per la mia famiglia (=casalinga). Mi sono piaciute entrambe le fasi della mia vita. Erano ciò di cui avevo bisogno nonostante tutto quello che dicessero gli altri. C’erano tanta fuga e tanta paura nell’uno quanto nell’altro. In entrambi c’era errore, in entrambi ricerca. Entrambi sono stati “veri” e li difendo. Della dipendente di azienda ricordo la passione, la curiosità e la gioia che impegna anima e corpo di quando stai imparando una professione. Anche la stanchezza estrema. Ricordo le soddisfazioni professionali ed umane. Lo scoprire mie abilità non sperimentate. Ricordo la solitudine. Ricordo gli errori. Ricordo la mancanza di tempo per la riflessione, per la ricerca della mia identità al di fuori del ruolo. La fatica del gestire casa e lavoro, il senso di divisione. Da tutto questo - e da altro - la scelta di dedicarmi esclusivamente alla famiglia ed alla casa. Della casalinga ricordo la fatica e la soddisfazione della solitudine tra le pareti domestiche. Di quei muri che riflettono solo te stessa spogliandoti dei titoli, delle lauree e delle onorificenze guadagnate sul campo. Di fronte al negoziante di turno sei una persona come tutte le altre. Almeno all’inizio. Ricordo lo “spogliamento”, lo sparire del presunto “io” per conoscere e dare spazio al presunto “noi”. Ricordo la costruzione di una “casa” a partire da un appartamento. Di un vicinato a partire da semplici inquilini di condominio. Di una moglie a partire da una sposa. Ricordo con gioia lo sperimentarmi anche nelle arti miticamente ascritte alle nonne: cucina, cucito (e simili), cura. Certo, dopo un po’ il ripetere come una meditazione o una preghiera sempre gli stessi gesti offrendoli ai familiari ed a Dio ha cominciato a non bastarmi. La sensazione (l’errore) anche non coscientemente trasmessomi da mia madre e da mia suocera, era nell’attribuire al mio lavoro meno valore di quello che attribuivo al lavoro “esterno” del mio compagno di viaggio. Quell’errore che fa sì che dopo una lunga giornata di lavoro densa per entrambi, lui ha il diritto di tornare a casa e sedersi sul divano mentre tu ti senti il dovere di stare in piedi fino a tardi per cucinare, riassettare e stirare servendo tutti quanti. Perché loro sono tornati da fuori mentre tu sei stata a casa (!) tutto il giorno e potevi prenderti le pause quando volevi (!!!). (Per inciso ho letto tra i vari post qui lasciati che anche altre donne hanno vissuto la stessa esperienza. Mi dispiace per loro, ma sono contenta che sia stata riconosciuta per quella che è – un errore di valutazione - e condivisa). Con il passare del tempo è comparso ed è diventato imperante il senso di inutilità che, nonostante il sostegno di chi già c’era passato, non sono riuscita a sciogliere e mi ha spinta nuovamente a lavorare fuori casa. C’era un pezzo di me individuo che non era cresciuto precedentemente. Mi sono anche detta che cambiare attività non aiuta a sciogliere i nodi: me li ritroverò se sono “cose mie”. Ma così è andata. In fondo non fa male cambiare prospettiva per risolvere un puzzle: se sono arenata da questa parte magari di là trovo la soluzione! La Provvidenza mi ha offerto un buon compromesso tra la casa (che mi sarebbe mancata troppo) ed il servizio ad altri. Ammetto che, nonostante le mie paure, sta portando frutti buoni di presenza anche in famiglia. Sento tanto lo spessore e la sicurezza che mi ha portato l’esperienza di casalinga quando sono a servizio di terzi. Sento tanto lo spessore e la sicurezza in me nonché gli impulsi di novità che il lavoro conto terzi porta nella nostra casa. Finalmente inizia ad essere un soffitto con due pareti che stanno in piedi ciascuna per conto suo… e questo non è poco. Forse quell’io che credetti di lasciare non era un io e quel noi che credevo di costruire non era un noi. Trovare un equilibrio è il mio obiettivo ancora lontanissimo da raggiungere. Da lontano sempre una stella: “scito te ipsum”. Un abbraccio e grazie dell’ospitalità. Pulvis”

23/03/09

Domenica 22 Marzo 2009
Cari tutti, ieri sera sono andata a letto un po’ più serena e la febbre ed il mal di gola sembrano avermi dato un po’ di tregua. E’ vero che mi sono alzata da poco e che è ancora presto (sono le 7:50 c.ca)! Speriamo bene. Pensavo a voi, a chi di voi capiterà tra queste righe, cosa lascerà scritto… C’è il dubbio che questo mio “esperimento” sia in realtà proteggere la mia solitudine. Mi dico: «Ma non è che risolvi molto! Parli a volto scoperto solo nel vuoto. Forse nessuno leggerà mai il messaggio di questa bottiglia affidata ad un Oceano troppo grande». Non lo so. Mi fido. Nella mia vita ho sentito sempre “una mano sulla testa” che mi protegge e mi guida. Quando ho avuto domande importanti per me, ma alle quali non sapevo dove trovare la risposta, quello che per me è Dio (per altri sarà Allah, Adonai, il Grande Spirito, l’Universo, e quant’altro che non conosco) mi ha sempre sorretta ed accompagnata là dove altri miei simili avevano intrapreso la stessa ricerca. Mi ha dato strumenti e luce per trovare le risposte. Mi ha risposto, in un certo senso. Io, come forse molte altre donne, ebbi (da bambina e poi da ragazza fin più in là negli anni) un pessimo rapporto con la mia famiglia ma soprattutto con mia madre. La odiavo visceralmente. Sentivo ostili le mie sorelle per quanto a loro, almeno a tratti, volessi veramente bene. Mi sentivo come “innamorata” di mio padre, era il mio uomo ideale ed allo stesso tempo non ne sopportavo molti modi di fare e pensare, ne vedevo i limiti… e non riuscivo ad uscire da questa empasse che mi faceva soffrire disperatamente! Anche perché la pessima relazione con mamma era dominante su tutto. Il peggio è che mi sentivo io la causa di tutto questo. Mi sentivo “cattiva”, disobbediente. Ah, se fossi stata più docile forse sarebbe stato più facile! Se non avessi sempre cercato di capire, di verificare… Se non avessi messo in dubbio le idee e gli atteggiamenti della mia famiglia, pensato diverso da loro, se non avessi sempre messo il dito nei difetti, se non avessi sempre cercato amici miei che a detta di mia madre “mi plagiavano” nella misura in cui pensavano –come già me- diversamente dai miei… Chiesi aiuto a Dio. Incappai in un’amica che mi diede una prima boccata di ossigeno ed ebbi la forza di iscrivermi a psicologia… No, non per aiutare gli altri… figuriamoci! Come potrebbe una zoppa ed guercia aiutare gli altri solo un po’ miopi a trovare la loro strada!!! No, era per capire qualcosa di me. Per cominciare a dipanare una matassa veramente troppo aggrovigliata. Passavo le lezioni più “toccanti” seduta in fondo all’aula senza riuscire a smettere di piangere nella disperata (quanto vana) speranza che nessuno mi vedesse. Lo stesso mi capitava in aula studio: per ogni pagina letta c’era quasi un quaderno di lettere a Dio scritte tra le lacrime. Com’è prevedibile i miei studi non sono andati molto avanti. Però la comprensione e l’ascolto di me sì. Avevo iniziato a parlare con un altro da me (Dio in questo caso) del mio cuore. Poi cominciai a lavorare. Il dolore accecante e paralizzante di prima aveva lasciato ormai spazio ad una semplice domanda: perché odio tanto mia madre e mi sento come innamorata di mio padre? Una psicologa della Asl, ormai alla soglia del pensionamento, archiviò la mia domanda con un “perché non sei ancora adulta”. Grazie tante. In effetti era vero, ma quella era forse il punto di arrivo. A me mancava il discorso, da cui veniva fuori quel riassunto! Gli impegni ormai più seri di lavoro mi portarono fuori città e, non pacificata dalla risposta della psicologa, rivolsi la stessa domanda a Dio. Dopo non molto incrociai un vecchissimo amico che non vedevo da anni e che mi invitò alla presentazione di un seminario di un percorso di crescita personale. Speravo nessuno mi vedesse nel grande cerchio di persone lì presenti. Mi parve che molte fossero in cerca di qualcosa. Soprattutto, stando ad ascoltare le condivisioni degli altri, cominciai a capire qualcosa della mia storia. Vidi che io non ero l’unica ad aver vissuto una storia del genere. Mi sentii accolta per quella che ero e non giudicata. Sentivo rispettato il mio continuo silenzioso stare in disparte ed ascoltare senza raccontare alcunché di me. Pian piano, goccia dopo goccia, cominciai a scaldare il gelo del mio cuore. Dopo anni di ascolto di me e degli altri, con l’amore di chi mi stava accanto e tanto dolore nel mettere le mani in sofferenze così antiche e provare a condividerle alla mia famiglia di origine, ho proprio sentito che quell’odio per mia madre era in realtà un’immensa coperta sull’amore sterminato che come figlia provo per lei. E’ come se pian piano le incomprensioni ed il dolore che nascono dall’egoismo e dalle malattie della relazione, diventano talmente pesanti che possono essere lenite solo dalla rabbia. La mia rabbia accecava la mia capacità di riconoscere e condividere il mio dolore e quindi l’amore. Chiaro che un bambino ama chi gli dà la vita e lo sostenta. Per questo è disposto a rinunciare a sé, anche a morire per chi lo genera. Ed in effetti un po’ morta la sono stata per tantissimo tempo. Per non scardinare tutta la famiglia ho rinunciato a sentire, a far vivere il mio cuore. Ho recentemente trovato un brano che secondo me descrive benissimo tutto questo. Purtroppo non so chi l’ha scritto perché era sul retro di una fotocopia datami da chissàchi, chissàquando ed archiviata tra mille altre carte che colleziono. Lo riporto:
“Armando era una saggio. Aveva capito il senso della vita ed il valore della conoscenza. Tuttavia la sua esistenza fu piuttosto difficile, perché Armando era uno schiavo. fu venduto ad un ricco signorotto arabo, che lo impegnò in mille servizi. In breve tempo, però, il padrone riconobbe le qualità di Armando e lo schiavo divenne il suo preferito. L’uomo non assaggiava cibo, se prima non lo aveva condiviso con lui e lo faceva per dimostrare ad Armando un sincero apprezzamento delle sue qualità. D’altra parte egli aveva deciso di liberare lo schiavo, non appena se ne fosse presentata l’occasione. «Uno come Armando non deve vivere in cattività. Ma gli renderò la libertà solo quando scoprirò che la sua gratitudine nei miei confronti è immensa». Un giorno, i mercanti d’una città vicina portarono al signorotto una partita d’angurie, assai succulente a prima vista. Come al solito, prima di mangiarle l’uomo le sottopose al giudizio di Armando. Lo schiavo mangiò una porzione di anguria con grande partecipazione. Sembrava proprio, a giudicare dal suo atteggiamento, che il frutto fosse prelibato. Così il signorotto decise, senza esitare, di mangiare la sua parte. Dopo pochi istanti, però, dovette smettere. Disgustato, stava addirittura per sputare l’anguria! L’uomo andò su tutte le furie, e se la prese con lo schiavo. La possibilità della liberazione per Armando stava forse per svanire? «Quest’anguria ha un sapore insopportabile tanto è acre! Perché non me l’hai detto, Armando? Pensavo fossi sempre sincero con me!» Umilmente, lo schiavo rispose: «Padrone! Sono sempre sincero con te. Ma non puoi chiedermi di criticare le cose che mi offri. Non oso farlo, perché sarei un ingrato. Io dipendo da te e dal tuo amore per me. I tuoi doni saranno sempre bene accetti, anche se riguardassero cose ripugnanti. D’altra parte, per me non sarebbero tali. Tutto ciò che mi dai è buono, poiché lo offri generosamente». Il signorotto capì che Armando aveva sacrificato il proprio gusto personale in suo favore e capì che era giunto il momento di liberare lo schiavo fedele”.
Per quello che ho potuto osservare noi da bambini funzioniamo un po’ come Armando: accettiamo tutte le cose offerteci perché ne sentiamo (o presupponiamo) la buona fede e l’amore. Alle volte c’è l’amore per se stessi più che per l’altro che spinge a quel dono… ed alla lunga un bambino lo sente e questo, unito alla frustrazione per il sentimento di ingiustizia che pian piano si va formando, crea la catena che io ho sulla mia pelle sperimentato… e purtroppo “il signorotto” di turno che ha la fortuna di accorgersi di quell’abnegazione, non sempre è tanto libero da se stesso da concedere la libertà da sé all’altro… Prego il Cielo che mi consenta sempre di ascoltare l’emozione di risposta dei bambini e di chi incontro e non solo me stessa.