10/05/10
A proposito di Arkéon.
La scienza, con l’evolvere delle conoscenze e con l’acquisizione di nuovi strumenti, ha letto e spiegato vecchi fenomeni con parole a volte nuove, altre volte semplicemente più esaustive, altre ancora più focalizzate su un aspetto o su un altro. La realtà osservata ed indagata è sempre quella: cambia chi la osserva.
Ancora.
Lo stesso alimento che nutre alcuni, altri li fa morire o li conduce in tale direzione: penso al grano per i celiaci o alla dieta di chi è affetto da fenilchetonuria (ricordo il film “L’olio di Lorenzo”). In sé quel cibo non ha nulla di dannoso: è che non va bene per tutti nella stessa misura né fa bene a tutti nella stessa maniera.
Da queste premesse parto per raccontare la mia esperienza con Arkéon. Come la comprendo oggi, nulla di più e nulla di meno. Giocoforza ne parlerò nei termini di un prima- durante- dopo perché, in quanto essere umano, tutte le mie esperienze si snodano nel tempo e tutto ciò che mi accade genera degli effetti in me e su quello che verrà, seppure minimi.
Sono sempre stata in ricerca. Del senso delle cose, di alternative alle strade usuali che fossero proprio adatte a me, o semplicemente di vedere se c’è un altro modo per ottenere la stessa cosa. Proprio la ricerca del senso delle mie tensioni e del vuoto che sentivo nella mia vita all’interno della mia famiglia mi condussero ad Arkéon.
Pregai di cuore Dio di aiutarmi a comprendere il perché, ed alla prima presentazione cui assistetti Vito Carlo Moccia toccò quei temi. Non che fossero temi speciali, ma lo fece proprio con le parole con le quali avevo nel segreto del mio cuore formulato quelle domande. Mi dissi che lì c’era un pezzo di strada da fare buono per me.
Io ero “congelata”: tutto era “uguale” per me. Dalle bastonate alle carezze, dalla solitudine al contatto umano, dal bianco al nero andava tutto bene allo stesso modo, per me.
Non eticamente, ma nel senso che non mi suscitavano emozioni diverse. Se vedevo le stesse alternative applicate sugli altri, invece, avevo ben chiaro ciò che era o meno buono e giusto. Sentivo la rabbia ed il dolore o la gioia immensa che probabilmente loro avevano provato… ma sulla mia pelle era sempre “tutto uguale”.
Vivevo nella speranza di passare inosservata e ci riuscivo benissimo. Nelle rare relazioni non mi esponevo né lasciavo entrare nessuno oltre la soglia della formalità minima. Se c’era un cerchio di sedie allineate mi sembrava di sedere sulle spine finché la mia non era un po’ più arretrata delle altre verso l’esterno del cerchio.
Credo che a quel tempo nessuna psicoterapia (nella quale lavori in prima persona) avrebbe potuto arrivare a me, perché io avevo bisogno di stare nascosta e confusa fra tanti.
Nei cerchi di Arkeon ho trovato proprio questo: tante persone che a volte nemmeno mi vedevano. Ma io vedevo loro, ed a sentirli raccontare le loro vite, le loro emozioni, talvolta mi scoprivo a piangere perché quello era andato a scongelare un puntino di me.
Nessuno mi ha mai chiesto di espormi ed ho sempre sentito calore umano e rispetto della mia “forma”. All’inizio era solo: «Io sono xxx. Grazie». Intanto a furia di ripetere “Io sono xxx” e di far scongelare puntini, ho cominciato a riuscire a stare con gli altri nel cerchio, a sentire che c’ero (ricordo gli intensivi, quando era il momento nel quale ciascuno si ripeteva che eravamo vivi, e toccavamo la corteccia degli alberi, sentivamo la terra a piedi nudi, guardavamo il cielo, ascoltavamo il cinguettio degli uccelli e sentivamo i profumi della natura… che gratitudine verso il Cielo per quell’esperienza…).
Infine mi ritrovai a condividere con gli altri - più o meno sconosciuti - quello che mi accadeva. Sempre e solo negli stretti limiti che io ponevo e sceglievo di volta in volta.
Mi piaceva tantissimo il momento dello scambio di trattamenti Reiki e per conto mio l’ho continuato a coltivare anche quando in Arkéon quasi più nessuno lo faceva (per comodità o per pigrizia).
Ho partecipato a pochi intensivi perché, nonostante fossi conscia che il costo comprendeva vitto, alloggio, quaderni, penne e tutto quanto per parecchi giorni, ritenevo di non potermi permettere di sostenere quel costo con troppa frequenza. Nessuno mi disse mai niente né mi diede mai ad intendere che fosse opportuno io lo facessi. Né tanto meno sono mai stata isolata per questa ragione. Ho continuato la mia ricerca tranquillamente.
“Le sedie”, quelle del filmato mandato in onda a “Chi l’ha visto?”, ho scelto di provarle, ma mi hanno sempre detto poco.
Venivano chiamate così perché si era seduti su una sedia di fronte ad una persona (anche lei seduta) che ci capitava davanti più o meno a caso. La “consegna” era di non alzarsi né di toccare l’altro, di rispettare il turno di parola nel quale uno ripeteva una domanda e l’altro dava la sua risposta e poi viceversa. Al suono del gong (l’unico udibile tra tante persone che parlavano e talvolta urlavano) si taceva. Ricordo un gran frastuono. Sì, qualcuno si arrabbiava davvero nel rispondere alla persona che aveva di fronte e ci volevano uomini (indipendentemente dalla sua stazza) a tenerlo perché non facesse male a sé o agli altri.
La rabbia è un’emozione potente che purtroppo nella nostra società è sempre meno ammessa. Nel senso che nemmeno deve esistere, nemmeno la si deve provare!
Stessa cosa capita per moltissimi altri stati d’animo... ma loro non se ne possono stare lì troppo a lungo! Se uno vuole li lascia uscire e si confronta con loro, li guarda, ci dialoga, li ascolta. Se no può controllarli prima ancora che nascano o almeno provarci con le infinite strategie che ciascuno di noi conosce e da sempre ha messo in atto. Per questo dico “benedette le sedie”! Talvolta vorrei poterle avere oggi.
Il no-limits fu per me di gran lunga più prezioso. Intanto non ero bendata né lo era alcuno. Come tutte le attività proposte non era obbligatorio: bastava non presentarsi, starsene nella propria camera o restarsene al proprio posto senza camminare dentro il cerchio. Vito Carlo Moccia ci invitava a chiudere gli occhi per il rispetto della privacy delle persone che avremmo incontrato. …poi, per me il corpo è “tempio sacro” e non ho mai permesso ad alcuno di toccarmi, figuriamoci di spogliarmi o fare le cose che sono state dette in TV dalle “vittime” (mi bastava allontanarmi o allontanare la mano di chi avevo di fronte per dire che non volevo essere toccata in alcun modo, senza nemmeno parlare). Nemmeno un bacio ho mai permesso. E’ riservato solo a chi ho scelto come compagno di strada.
Io ho toccato da sopra i vestiti delle altre persone. Non per morbosità, non mi appartiene. Scelsi di permettermi di rivivere qualcosa che non so cosa sia stato ma che mi apparteneva. Forse da qualche parte, in qualche tempo, era già vissuto. E’ stato un “dolore” per me nella misura in cui io avevo di me un’idea e seguendo questo non pensare, ho scoperto di essere almeno in parte differente da quell’idea. Ne parlai subito con il mio fidanzato e le cose andarono a posto rapidamente.
Sempre con gioia ricordo la lotta degli uomini, o l’intensivo sulla morte. Ah, l’intensivo sulla morte! …Esperienza memorabile, per me che cammino sempre incerta nella scelta tra lei e la vita. Nemmeno a dirlo che anche qui delle bare o delle sepolture fino al collo menzionate in TV non ne ho visto nemmeno l’ombra.
Ricordo la gioia del suono della campanella che ciascuno di noi lanciava verso il Cielo in segno di ringraziamento.
Ricordo la pace fatta con mia madre dentro il mio cuore dopo una notte a cercare di scriverle una lettera di commiato che usciva sempre piena di risentimento. E la pace vera e le lacrime e gli abbracci che ci scambiammo con lei quando, tornata dall’intensivo, andai a trovarla. Posso dire che da quel giorno, ho incominciato ad avere una relazione con mia madre. Credo che non avrei mai potuto arrivarci senza tutto il cammino percorso prima.
Ricordo di aver guardato in faccia il mio desiderio di essere morta e di aver scelto che non era ancora il tempo, perché desideravo (per la prima volta) tornare dalla mia famiglia.
Ricordo anche le messe di quel povero sacerdote messo senza ritegno alla gogna in TV.
Io lo ringrazio pubblicamente con tutto il mio cuore, qui ed ora perché al di là delle sue debolezze di uomo, in ogni confessione ed in ogni incontro non ha fatto che essere davvero “sacerdote di Cristo”: non ha fatto altro che ricordarmi e testimoniare con il suo modo di essere ed il suo rispetto per l’altro e per la vita, che D i o è A m o r e e che D i o c i a m a p e r q u e l l o c h e s i a m o, così come siamo. Lui ci ha creati e ci conosce più in profondità di noi stessi. Ci chiede di amarci come lui ci ama.
Da qui per me è stato un “doloroso” cammino di uscita dagli inferi. Doloroso perché riemerge tutto il tempo in cui non ti sei amato e tutta la difficoltà di farlo nonostante i limiti che ti riconosci nella carne. Dagli inferi perché la distanza dal godere il tepore dell’amore di Dio è di per se stessa un inferno scuro nel quale non trovi pace.
Ecco, mi permetto di fare riferimento a quel brano del Vangelo che fu oggetto dell’omelia della messa alla quale partecipai in S. Eustorgio, quello degli uomini che, saputo che Gesù era in una casa e non potendo raggiungerlo dalla porta per la gran folla radunatasi, praticano un’apertura nel tetto e vi calano un paralitico bloccato sul suo lettino affinché il Cristo lo possa guarire.
Se quella casa sono io, e Cristo è nel mio intimo, che mi attende, in Arkéon ho incontrato degli amici che mi hanno aiutata ad aprire una breccia nella mia corazza perché io potessi “rientrare in me stessa” e farmi “sanare le ferite dell’anima” dal Suo Amore.
Grazie infinite.
Ancora.
Lo stesso alimento che nutre alcuni, altri li fa morire o li conduce in tale direzione: penso al grano per i celiaci o alla dieta di chi è affetto da fenilchetonuria (ricordo il film “L’olio di Lorenzo”). In sé quel cibo non ha nulla di dannoso: è che non va bene per tutti nella stessa misura né fa bene a tutti nella stessa maniera.
Da queste premesse parto per raccontare la mia esperienza con Arkéon. Come la comprendo oggi, nulla di più e nulla di meno. Giocoforza ne parlerò nei termini di un prima- durante- dopo perché, in quanto essere umano, tutte le mie esperienze si snodano nel tempo e tutto ciò che mi accade genera degli effetti in me e su quello che verrà, seppure minimi.
Sono sempre stata in ricerca. Del senso delle cose, di alternative alle strade usuali che fossero proprio adatte a me, o semplicemente di vedere se c’è un altro modo per ottenere la stessa cosa. Proprio la ricerca del senso delle mie tensioni e del vuoto che sentivo nella mia vita all’interno della mia famiglia mi condussero ad Arkéon.
Pregai di cuore Dio di aiutarmi a comprendere il perché, ed alla prima presentazione cui assistetti Vito Carlo Moccia toccò quei temi. Non che fossero temi speciali, ma lo fece proprio con le parole con le quali avevo nel segreto del mio cuore formulato quelle domande. Mi dissi che lì c’era un pezzo di strada da fare buono per me.
Io ero “congelata”: tutto era “uguale” per me. Dalle bastonate alle carezze, dalla solitudine al contatto umano, dal bianco al nero andava tutto bene allo stesso modo, per me.
Non eticamente, ma nel senso che non mi suscitavano emozioni diverse. Se vedevo le stesse alternative applicate sugli altri, invece, avevo ben chiaro ciò che era o meno buono e giusto. Sentivo la rabbia ed il dolore o la gioia immensa che probabilmente loro avevano provato… ma sulla mia pelle era sempre “tutto uguale”.
Vivevo nella speranza di passare inosservata e ci riuscivo benissimo. Nelle rare relazioni non mi esponevo né lasciavo entrare nessuno oltre la soglia della formalità minima. Se c’era un cerchio di sedie allineate mi sembrava di sedere sulle spine finché la mia non era un po’ più arretrata delle altre verso l’esterno del cerchio.
Credo che a quel tempo nessuna psicoterapia (nella quale lavori in prima persona) avrebbe potuto arrivare a me, perché io avevo bisogno di stare nascosta e confusa fra tanti.
Nei cerchi di Arkeon ho trovato proprio questo: tante persone che a volte nemmeno mi vedevano. Ma io vedevo loro, ed a sentirli raccontare le loro vite, le loro emozioni, talvolta mi scoprivo a piangere perché quello era andato a scongelare un puntino di me.
Nessuno mi ha mai chiesto di espormi ed ho sempre sentito calore umano e rispetto della mia “forma”. All’inizio era solo: «Io sono xxx. Grazie». Intanto a furia di ripetere “Io sono xxx” e di far scongelare puntini, ho cominciato a riuscire a stare con gli altri nel cerchio, a sentire che c’ero (ricordo gli intensivi, quando era il momento nel quale ciascuno si ripeteva che eravamo vivi, e toccavamo la corteccia degli alberi, sentivamo la terra a piedi nudi, guardavamo il cielo, ascoltavamo il cinguettio degli uccelli e sentivamo i profumi della natura… che gratitudine verso il Cielo per quell’esperienza…).
Infine mi ritrovai a condividere con gli altri - più o meno sconosciuti - quello che mi accadeva. Sempre e solo negli stretti limiti che io ponevo e sceglievo di volta in volta.
Mi piaceva tantissimo il momento dello scambio di trattamenti Reiki e per conto mio l’ho continuato a coltivare anche quando in Arkéon quasi più nessuno lo faceva (per comodità o per pigrizia).
Ho partecipato a pochi intensivi perché, nonostante fossi conscia che il costo comprendeva vitto, alloggio, quaderni, penne e tutto quanto per parecchi giorni, ritenevo di non potermi permettere di sostenere quel costo con troppa frequenza. Nessuno mi disse mai niente né mi diede mai ad intendere che fosse opportuno io lo facessi. Né tanto meno sono mai stata isolata per questa ragione. Ho continuato la mia ricerca tranquillamente.
“Le sedie”, quelle del filmato mandato in onda a “Chi l’ha visto?”, ho scelto di provarle, ma mi hanno sempre detto poco.
Venivano chiamate così perché si era seduti su una sedia di fronte ad una persona (anche lei seduta) che ci capitava davanti più o meno a caso. La “consegna” era di non alzarsi né di toccare l’altro, di rispettare il turno di parola nel quale uno ripeteva una domanda e l’altro dava la sua risposta e poi viceversa. Al suono del gong (l’unico udibile tra tante persone che parlavano e talvolta urlavano) si taceva. Ricordo un gran frastuono. Sì, qualcuno si arrabbiava davvero nel rispondere alla persona che aveva di fronte e ci volevano uomini (indipendentemente dalla sua stazza) a tenerlo perché non facesse male a sé o agli altri.
La rabbia è un’emozione potente che purtroppo nella nostra società è sempre meno ammessa. Nel senso che nemmeno deve esistere, nemmeno la si deve provare!
Stessa cosa capita per moltissimi altri stati d’animo... ma loro non se ne possono stare lì troppo a lungo! Se uno vuole li lascia uscire e si confronta con loro, li guarda, ci dialoga, li ascolta. Se no può controllarli prima ancora che nascano o almeno provarci con le infinite strategie che ciascuno di noi conosce e da sempre ha messo in atto. Per questo dico “benedette le sedie”! Talvolta vorrei poterle avere oggi.
Il no-limits fu per me di gran lunga più prezioso. Intanto non ero bendata né lo era alcuno. Come tutte le attività proposte non era obbligatorio: bastava non presentarsi, starsene nella propria camera o restarsene al proprio posto senza camminare dentro il cerchio. Vito Carlo Moccia ci invitava a chiudere gli occhi per il rispetto della privacy delle persone che avremmo incontrato. …poi, per me il corpo è “tempio sacro” e non ho mai permesso ad alcuno di toccarmi, figuriamoci di spogliarmi o fare le cose che sono state dette in TV dalle “vittime” (mi bastava allontanarmi o allontanare la mano di chi avevo di fronte per dire che non volevo essere toccata in alcun modo, senza nemmeno parlare). Nemmeno un bacio ho mai permesso. E’ riservato solo a chi ho scelto come compagno di strada.
Io ho toccato da sopra i vestiti delle altre persone. Non per morbosità, non mi appartiene. Scelsi di permettermi di rivivere qualcosa che non so cosa sia stato ma che mi apparteneva. Forse da qualche parte, in qualche tempo, era già vissuto. E’ stato un “dolore” per me nella misura in cui io avevo di me un’idea e seguendo questo non pensare, ho scoperto di essere almeno in parte differente da quell’idea. Ne parlai subito con il mio fidanzato e le cose andarono a posto rapidamente.
Sempre con gioia ricordo la lotta degli uomini, o l’intensivo sulla morte. Ah, l’intensivo sulla morte! …Esperienza memorabile, per me che cammino sempre incerta nella scelta tra lei e la vita. Nemmeno a dirlo che anche qui delle bare o delle sepolture fino al collo menzionate in TV non ne ho visto nemmeno l’ombra.
Ricordo la gioia del suono della campanella che ciascuno di noi lanciava verso il Cielo in segno di ringraziamento.
Ricordo la pace fatta con mia madre dentro il mio cuore dopo una notte a cercare di scriverle una lettera di commiato che usciva sempre piena di risentimento. E la pace vera e le lacrime e gli abbracci che ci scambiammo con lei quando, tornata dall’intensivo, andai a trovarla. Posso dire che da quel giorno, ho incominciato ad avere una relazione con mia madre. Credo che non avrei mai potuto arrivarci senza tutto il cammino percorso prima.
Ricordo di aver guardato in faccia il mio desiderio di essere morta e di aver scelto che non era ancora il tempo, perché desideravo (per la prima volta) tornare dalla mia famiglia.
Ricordo anche le messe di quel povero sacerdote messo senza ritegno alla gogna in TV.
Io lo ringrazio pubblicamente con tutto il mio cuore, qui ed ora perché al di là delle sue debolezze di uomo, in ogni confessione ed in ogni incontro non ha fatto che essere davvero “sacerdote di Cristo”: non ha fatto altro che ricordarmi e testimoniare con il suo modo di essere ed il suo rispetto per l’altro e per la vita, che D i o è A m o r e e che D i o c i a m a p e r q u e l l o c h e s i a m o, così come siamo. Lui ci ha creati e ci conosce più in profondità di noi stessi. Ci chiede di amarci come lui ci ama.
Da qui per me è stato un “doloroso” cammino di uscita dagli inferi. Doloroso perché riemerge tutto il tempo in cui non ti sei amato e tutta la difficoltà di farlo nonostante i limiti che ti riconosci nella carne. Dagli inferi perché la distanza dal godere il tepore dell’amore di Dio è di per se stessa un inferno scuro nel quale non trovi pace.
Ecco, mi permetto di fare riferimento a quel brano del Vangelo che fu oggetto dell’omelia della messa alla quale partecipai in S. Eustorgio, quello degli uomini che, saputo che Gesù era in una casa e non potendo raggiungerlo dalla porta per la gran folla radunatasi, praticano un’apertura nel tetto e vi calano un paralitico bloccato sul suo lettino affinché il Cristo lo possa guarire.
Se quella casa sono io, e Cristo è nel mio intimo, che mi attende, in Arkéon ho incontrato degli amici che mi hanno aiutata ad aprire una breccia nella mia corazza perché io potessi “rientrare in me stessa” e farmi “sanare le ferite dell’anima” dal Suo Amore.
Grazie infinite.
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Vito Carlo Moccia
15/04/10
Non è tutto oro quello che luccica.
Cari tutti,
mi sono presa qualche giorno per smaltire l’indignazione e lo shock degli articoli apparsi sul quotidiano “l’Unità” venerdì 9 e sabato 10 aprile 2010.
Come molti di arkéon, sono rimasta stordita dalla palese manipolazione degli eventi per i propri obiettivi. Una stortura frequente a causa della quale, purtroppo, sto perdendo fiducia nei mezzi di informazione di ogni genere: nella possibilità, ascoltando o leggendo ciò che mi dicono, di sapere cosa realmente è successo senza il filtro plasmatore dei celati interessi economici o di potere o di chissà che genere, di questa o quella parte.
Ho saputo del primo articolo per puro caso: su radio Capital durante la rassegna stampa semi-comica della mattina. Una doccia fredda.
Ho saputo del primo articolo per puro caso: su radio Capital durante la rassegna stampa semi-comica della mattina. Una doccia fredda.
…Ma quando le persone che scrivono articoli -ed a maggior ragione i direttori dei giornali- si prenderanno la briga di fare seriamente il loro mestiere interrogando non solo una faccia della medaglia ma anche l’altra?
Mia madre, quando ero piccola, non si stancava di ripetermi: “Non è tutto oro quello che luccica”.
Perché questo semplice messaggio non è nemmeno preso in considerazione da chi fa questo delicato mestiere?
La notizia dell’Unità rimbalza alla radio, su internet e non solo, e fa danni se non è più che certa e veritiera!!!
Non è vero che per raggiungere il proprio scopo ogni colpo è lecito. E’ un agire IMMORALE!!! Siete adulti, lo volete capire? Se qualcuno facesse così con voi ne sareste felici? Lo trovereste giusto? Non è che perché i più agiscono male dobbiamo farlo tutti: in questa direzione ci massacreremo gli uni gli altri e la specie umana finirà per estinguersi presto!
Penso a quella povera coppia portata ancora una volta in primo piano senza ragione ed a volto scoperto, con il pretesto dello scoop legato alla canzone che Povia portò a San Remo. Ma lasciateli in pace! Non potete usare la carne degli altri per i vostri comodi in questo modo! Sono famiglie semplici: non hanno il vostro pelo sullo stomaco. Perché sporcare ogni cosa bella?!?
Io partecipai alla messa di S. Eustorgio della quale parla il quotidiano.
Avevo letto per ricerca personale dei libri sul Cristianesimo ed il percorso di fede dei cristiani scritti da padre Raniero Cantalamessa. Avevo sentito nelle sue parole il fuoco dello Spirito Santo e, come è inevitabile, ne ero stata attratta.
Ho saputo che concelebrava una messa in una chiesa milanese che non avevo mai sentito nominare prima proprio nei giorni in cui si teneva un seminario di Arkéon con Vito Carlo Moccia. Mi sono detta: è una buona occasione per partecipare ad una Messa celebrata con il cuore.
Ci sono andata ed effettivamente i celebranti ed il coro sono riusciti a trasmettere ai fedeli presenti l’Amore di Dio come purtroppo non sempre si sente nelle celebrazioni Eucaristiche. Un vero e proprio dissetarsi con l’“acqua viva” di cui si parla nel Vangelo. Sono contenta di esserci andata.
Di qui a dire che conosco o che ho avuto rapporti (o che il gruppo arkéon li ha avuti) con il frate cappuccino, il passo è veramente troppo grande.
Ricordo che alla fine della messa il parroco di S. Eustorgio e p. Cantalamessa (che mi pare mi abbiano detto essere stato già altre volte concelebrante nella chiesa di S.Eustorgio) si misero, come usanza di quella parrocchia, davanti alle due porte per salutare tutti i fedeli che uscivano. Mio marito ed io eravamo in un momento di dolore grandissimo per la mancanza dei figli e ci inginocchiammo di fronte al frate chiedendogli una benedizione. Egli, senza dire nulla né benedirci, si voltò verso altri che arrivavano e si allontanò. Una lezione enorme. Come dire: cosa volete da me? Ascoltate ed accogliete ciò che Dio vi manda senza pretendere che io piccolo uomo lo cambi perché non ne ho il potere e nemmeno l’intenzione. Mi piacque moltissimo (non in quel momento, ovviamente: li per lì fu una durissima lezione).
Questo aneddoto per dire: ma quale relazione ha con noi questo servitore di Dio?
Ricordo che passammo in sagrestia perché il parroco, molto ospitale, vedendo un gruppo di non parrocchiani abbastanza numeroso, ci permise di vedere le bellezze conservate lì e nei locali attigui alla chiesa. Punto.
Padre Cantalamessa stesso, di fronte alle manifestazioni gratuite (nel senso di “non derivate da qualche sua azione particolare”) di affetto nei suoi confronti ha fatto quello che avrebbe fatto ogni sacerdote (ed ogni persona di buon senso): non le ha respinte duramente ma nemmeno le ha in alcun modo incoraggiate.
Trovo che anche con le contestate trasmissioni abbia percorso la sua strada in accordo a ciò che la sua scelta di vita gli richiede: ha preso ciò che c’era di buono e senza fare pubblicità, l’ha mostrato e l’ha usato per spiegare e portare la Parola di Dio.
…E se quello che nell’articolo è scritto del carteggio è vero, ha ancora di più la mia stima: non avendo assistito a fatti e non avendo motivi né interesse per credere all’una piuttosto che all’altra parte, li ha messi in comunicazione chiamandosene fuori.
Come a dire: guardi Vito Carlo Moccia che se lei è in buona fede e cerca di vedere aspetti critici del suo lavoro per crescere e migliorare nel rispetto dell’altro, qui c’è qualcuno che ha qualcosa da dirle. Guardi signora, che se il suo interesse è davvero il bene dei figli della sua amica, questo è quello che ne dice il loro padre
(e non si può dare per scontato che anche lui non abbia il bene dell’intelletto solo perché la pensa diversamente da lei! -aggiungo io).
E’ un modo di agire infinitamente più saggio e più corretto che quello di quei centri studi sulle sette che invece di far dialogare le parti le mettono sistematicamente una contro l’altra acuendo i conflitti e piegando gli eventi, le parole e le teorie a proprio uso e consumo.
E’ lo stesso che provò a mettere in atto la dott.sa Di Marzio chiedendo di far rientrare nel suo studio su arkéon anche le testimonianze negative pervenute al CeSAP della provincia di Bari. Purtroppo la dott.sa Tinelli non acconsentì (perché?) e –combinazione- dopo poco lo studio della Di Marzio fu bloccato da una vicenda giudiziaria partita ancora una volta da Bari, assurda, probabilmente montata ad arte da chissachì e (credo e spero) per fortuna ora conclusa.
Mi dispiace tanto che tutte queste persone estranee al lavoro di arkeon siano attaccate con il pretesto della nostra vicenda e patiscano per questo. Le porto nel cuore e nella preghiera.
Il dialogo
è portatore di chiarezza e di pace.
E’ terreno fertile per la capacità critica e
l’autonomia di pensiero
delle persone.
21/03/10
Aggiornamenti importanti.
Desidero segnalare due cose:
1) l'uscita del libro "Nuove religioni e sette", edizioni Magi della dott.sa R. Di Marzio che forse, essendo stato scritto da chi studia questi fenomeni (definiti dalla televisione di questi giorni "un vero e proprio allarme sociale"), può aiutare molti di noi a comprenderne la realtà;
2) l'apertura della nuova sezione "danni collaterali" sul sito "Il caso Arkeon" con la lettera di Piero Mazza il quale, a seguito di tutte queste trasmissioni - che magari dicono a parole di essere "garantiste" ma poi in tanti aspetti proprio non lo sono - ha perso il lavoro solo per il fatto di essere uno degli undici indagati di Arkeon.
Mi dispiace tanto per Piero, per la sua famiglia e per quanti come lui, senza far tanto chiasso sulla stampa o in TV, è ormai da veramente troppo tempo che subiscono questa pressione e questo stillicidio a mio giudizio organizzato.
Chi abita o ha abitato in paesi piccoli sa bene come gli sguardi e le dicerie della gente logorano la vita delle persone. Gente (purtroppo anche giornalisti, ultimamente!) che non si prende la briga e la responsabilità di verificare con la sua testa informandosi o domandando al diretto interessato, ma semplicemente si fa vento che porta ad altri il seme di quella "storia".
Lo stesso accade nei quartieri popolari e nei luoghi di lavoro.
Mi dispiace anche per me e per gli altri come me, perché tutto questo vuol dire che c'è una condanna già scritta prima di qualunque processo se non siamo più che d'accordo con chi si dichiara "vittima". La lezione sia chiara per tutti: per i media non si è innocenti fino a prova contraria, ma - come è stato detto nel servizio di "Terra!" di venerdì scorso - presunti colpevoli.
Il Cielo ci protegga tutti.
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verità mediatica
17/02/10
mercoledì delle ceneri
Cari tutti,
spero che stiate bene.
E’ un inverno cupo per me, questo. Pieno di lutti, malattie gravi e talvolta terminali per le persone che mi circondano e quindi – indirettamente - anche per me. In un primo tempo sono rimasta piuttosto perplessa di fronte a questa ecatombe che vedevo muoversi intorno. Ero stupita, stordita, non capivo il senso. Sembrava che ci fosse un messaggio ripetuto ma non capivo come potesse riguardarmi.
La risposta non ha tardato.
Dapprima si è ammalato mio marito. Abbiamo temuto per qualcosa di serio: attendiamo conferma di smentita. Primo shock.
Poi è arrivata la malattia per me. Nulla di eccezionale, ma il mio sistema immunitario risponde con i tempi suoi e mi ha costretta ad un periodo di sosta forzata che ormai dura da almeno un mese (e che grazie al Cielo sembra volgere al termine). In certi momenti sia mio marito sia io abbiamo temuto per la mia sopravvivenza e questo è stato il secondo shock.
Causa la debolezza della malattia abbiamo chiesto aiuto per le pulizie di casa ad una signora la quale, chiacchierando del più e del meno, mi racconta che da giovane è rimasta vedova con figli piccoli. Poi, nel tempo, ha trovato altri compagni che sono tutti morti dopo non molto. Erano più vecchi di lei - si è detta - e ne ha trovato uno più giovane. Anche lui, purtroppo, si avvia per la strada dei predecessori (vi vedo già che correte disperati a cercare ferro o che allungate con non curanza una mano sui "gioielli di famiglia"!).
L’ultima ieri sera. Mi chiama un’amica il cui marito era malato. Li avevo incontrati in autunno e mi sembrava che stesse decisamente meglio! Poi, per una serie di ragioni non ci siamo più sentiti e ieri sera la notizia che suo marito è morto.
Tutto questo per dire cosa?
Per condividere un pensiero che mio marito ed io ci siamo scambiati appena lo spavento più grosso ci ha lasciati:
siamo proprio fortunati.
Abbiamo veramente così tanto dalla vita.
Ogni mattina che ci svegliamo dopo una lunga o breve notte è un miracolo. Non è affatto scontato.
Ogni sera che ci corichiamo dopo una lunga giornata è un miracolo, non accade a tutti questa fortuna.
Allora ci siamo accorti che buttiamo le energie nel disperarci o nel desiderare e ricercare quello che non c’è (per noi i figli, per esempio) quando abbiamo avuto la fortuna di incontrarci, di incontrare l’Amore della nostra vita. Siamo insieme ed è un miracolo che ci siamo trovati!
Abbiamo avuto la fortuna di nascere e di crescere in una famiglia (ancorché a tratti un po’ sgangherata).
Abbiamo avuto la fortuna di studiare. Di crescere in un Paese grossomodo libero dove non è praticata la tortura e dove puoi permetterti di essere bella senza temere per la tua vita. In un Paese con libertà di religione ed anche di pensiero e di espressione. Con la sanità pubblica che, per quanto sfasciata sia, permette a chiunque di ricevere le cure minime… Un Paese ospitale, con il sole che non distrugge ed il gelo che non stritola, l’acqua a portata di mano… insomma, veramente una quantità di fortune che tantissimi nel mondo non hanno.
Il desiderio che ne nasce è quello di fare la mia parte là dove mi è concesso, condividendo ogni giorno il “pane quotidiano” che Dio mi dona: i miei talenti e le mie capacità, quello che vedo e che so. Anche la mia preghiera, certo.
Il desiderio che ne nasce è quello della pace del cuore.
Provo ad immaginare cosa sarebbe non un giorno senza di lui (questo è facile, è come un giorno di vacanza!): provo ad immaginare le settimane, i mesi e gli anni senza di lui. Cielo, come non soccombere alla mancanza! Deve essere un dolore immenso.
Ed i giorni insieme non sappiamo quanti saranno.
Uno pensa ai cinquanta anni, ma non per tutti è così. Ed anche se ci arrivi (anzi, a maggior ragione se ci arrivi), l’altro è diventato così tanto parte di te, della tua pelle, del tuo quotidiano borbottio, che senza sei perso. Ho visto due vecchietti vicino casa. Brontolavano sempre. Quando lui è morto lei ha perso la lucidità e poi l’autonomia, e poi…
Ma questo è per tutte le relazioni, mica solo per il marito! Vale per i figli, per i genitori, i parenti, gli amici, i vicini di casa o i conoscenti.
Che resta dopo quando l’altro se ne va, quando muore?
Resta il dispiacere di un incontro mancato, il senso di colpa per la pace non fatta, la mancanza di pace per l’amore non detto. Magari mascherati da rabbia (perché io ne sono proprio convinta che più grande è l’odio, più è grande la ferita, più forte è l’amore che c’è sotto).
Allora mi chiedo se non sia importante, dopo una litigata (che è giusto che ci sia), rimettere le cose nella giusta prospettiva ed incontrarsi, fare pace. Non perdere tempo dietro troppa timidezza o riservatezza e sbilanciarsi ad incontrare l’altro con il proprio cuore. Dare un calcio all’orgoglio ed alle paure e permettersi di vivere con gli altri. Di lasciarli entrare, anche.
Sono contenta di aver avuto l’occasione di guardare in faccia la mia rabbia verso mia madre nel corso dei seminari di Arkeon e di poter ora accedere e condividere l’amore che ho per lei. Non cambia ciò che lei è, né quello che sono io. Non cambia le sue scelte o non scelte né le mie. Però, nonostante la fatica di quegli anni, sono contenta che sia stato possibile.
Guardo con tenerezza mia madre. Lei non ha fatto pace con la sua quando questa era viva. Così quando è morta ne ha rivestito i panni per il senso di colpa. Per senso di colpa ha cercato di rinunciare all’amore dei suoi figli... Mi dispiace così tanto per quel tempo perso…
Fin da bambina mi domandavo perché mi facesse gli stessi torti che sua madre aveva fatto a lei e che l’avevano fatta soffrire. Poi ho visto che lo stesso ha fatto mia sorella maggiore: da un giorno all’altro ha cominciato a parlare ed a fare le stesse identiche cose che detestava in nostra madre (e che obiettivamente aveva ragione di deprecare!).
Credo che sia perché non l’ha mai perdonata ma nemmeno se n’è mai staccata. Non ha mai dialogato (per quello che si poteva) con lei. Alla fine delle due l’una: o nonostante l’amore immenso la odiava e cercava di “sradicarla” dal suo cuore - perché continuava a vedere il male che le faceva ritenendo di non poterne parlare- , o la incarnava potendo finalmente amarla senza odio - perché uguale a lei.
Sono proprio fortunata.
E ringrazio Dio.
(e me stessa che ho fatto la mia parte)
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