10/05/10

A proposito di Arkéon.

La scienza, con l’evolvere delle conoscenze e con l’acquisizione di nuovi strumenti, ha letto e spiegato vecchi fenomeni con parole a volte nuove, altre volte semplicemente più esaustive, altre ancora più focalizzate su un aspetto o su un altro. La realtà osservata ed indagata è sempre quella: cambia chi la osserva.
Ancora.
Lo stesso alimento che nutre alcuni, altri li fa morire o li conduce in tale direzione: penso al grano per i celiaci o alla dieta di chi è affetto da fenilchetonuria (ricordo il film “L’olio di Lorenzo”). In sé quel cibo non ha nulla di dannoso: è che non va bene per tutti nella stessa misura né fa bene a tutti nella stessa maniera.

Da queste premesse parto per raccontare la mia esperienza con Arkéon. Come la comprendo oggi, nulla di più e nulla di meno. Giocoforza ne parlerò nei termini di un prima- durante- dopo perché, in quanto essere umano, tutte le mie esperienze si snodano nel tempo e tutto ciò che mi accade genera degli effetti in me e su quello che verrà, seppure minimi.


Sono sempre stata in ricerca. Del senso delle cose, di alternative alle strade usuali che fossero proprio adatte a me, o semplicemente di vedere se c’è un altro modo per ottenere la stessa cosa. Proprio la ricerca del senso delle mie tensioni e del vuoto che sentivo nella mia vita all’interno della mia famiglia mi condussero ad Arkéon.
Pregai di cuore Dio di aiutarmi a comprendere il perché, ed alla prima presentazione cui assistetti Vito Carlo Moccia toccò quei temi. Non che fossero temi speciali, ma lo fece proprio con le parole con le quali avevo nel segreto del mio cuore formulato quelle domande. Mi dissi che lì c’era un pezzo di strada da fare buono per me.

Io ero “congelata”: tutto era “uguale” per me. Dalle bastonate alle carezze, dalla solitudine al contatto umano, dal bianco al nero andava tutto bene allo stesso modo, per me.
Non eticamente, ma nel senso che non mi suscitavano emozioni diverse. Se vedevo le stesse alternative applicate sugli altri, invece, avevo ben chiaro ciò che era o meno buono e giusto. Sentivo la rabbia ed il dolore o la gioia immensa che probabilmente loro avevano provato… ma sulla mia pelle era sempre “tutto uguale”.
Vivevo nella speranza di passare inosservata e ci riuscivo benissimo. Nelle rare relazioni non mi esponevo né lasciavo entrare nessuno oltre la soglia della formalità minima. Se c’era un cerchio di sedie allineate mi sembrava di sedere sulle spine finché la mia non era un po’ più arretrata delle altre verso l’esterno del cerchio.

Credo che a quel tempo nessuna psicoterapia (nella quale lavori in prima persona) avrebbe potuto arrivare a me, perché io avevo bisogno di stare nascosta e confusa fra tanti.
Nei cerchi di Arkeon ho trovato proprio questo: tante persone che a volte nemmeno mi vedevano. Ma io vedevo loro, ed a sentirli raccontare le loro vite, le loro emozioni, talvolta mi scoprivo a piangere perché quello era andato a scongelare un puntino di me.
Nessuno mi ha mai chiesto di espormi ed ho sempre sentito calore umano e rispetto della mia “forma”. All’inizio era solo: «Io sono xxx. Grazie». Intanto a furia di ripetere “Io sono xxx” e di far scongelare puntini, ho cominciato a riuscire a stare con gli altri nel cerchio, a sentire che c’ero (ricordo gli intensivi, quando era il momento nel quale ciascuno si ripeteva che eravamo vivi, e toccavamo la corteccia degli alberi, sentivamo la terra a piedi nudi, guardavamo il cielo, ascoltavamo il cinguettio degli uccelli e sentivamo i profumi della natura… che gratitudine verso il Cielo per quell’esperienza…).
Infine mi ritrovai a condividere con gli altri - più o meno sconosciuti - quello che mi accadeva. Sempre e solo negli stretti limiti che io ponevo e sceglievo di volta in volta.
Mi piaceva tantissimo il momento dello scambio di trattamenti Reiki e per conto mio l’ho continuato a coltivare anche quando in Arkéon quasi più nessuno lo faceva (per comodità o per pigrizia).

Ho partecipato a pochi intensivi perché, nonostante fossi conscia che il costo comprendeva vitto, alloggio, quaderni, penne e tutto quanto per parecchi giorni, ritenevo di non potermi permettere di sostenere quel costo con troppa frequenza. Nessuno mi disse mai niente né mi diede mai ad intendere che fosse opportuno io lo facessi. Né tanto meno sono mai stata isolata per questa ragione. Ho continuato la mia ricerca tranquillamente.

“Le sedie”, quelle del filmato mandato in onda a “Chi l’ha visto?”, ho scelto di provarle, ma mi hanno sempre detto poco.
Venivano chiamate così perché si era seduti su una sedia di fronte ad una persona (anche lei seduta) che ci capitava davanti più o meno a caso. La “consegna” era di non alzarsi né di toccare l’altro, di rispettare il turno di parola nel quale uno ripeteva una domanda e l’altro dava la sua risposta e poi viceversa. Al suono del gong (l’unico udibile tra tante persone che parlavano e talvolta urlavano) si taceva. Ricordo un gran frastuono. Sì, qualcuno si arrabbiava davvero nel rispondere alla persona che aveva di fronte e ci volevano uomini (indipendentemente dalla sua stazza) a tenerlo perché non facesse male a sé o agli altri.
La rabbia è un’emozione potente che purtroppo nella nostra società è sempre meno ammessa. Nel senso che nemmeno deve esistere, nemmeno la si deve provare!
Stessa cosa capita per moltissimi altri stati d’animo... ma loro non se ne possono stare lì troppo a lungo! Se uno vuole li lascia uscire e si confronta con loro, li guarda, ci dialoga, li ascolta. Se no può controllarli prima ancora che nascano o almeno provarci con le infinite strategie che ciascuno di noi conosce e da sempre ha messo in atto. Per questo dico “benedette le sedie”! Talvolta vorrei poterle avere oggi.

Il no-limits fu per me di gran lunga più prezioso. Intanto non ero bendata né lo era alcuno. Come tutte le attività proposte non era obbligatorio: bastava non presentarsi, starsene nella propria camera o restarsene al proprio posto senza camminare dentro il cerchio. Vito Carlo Moccia ci invitava a chiudere gli occhi per il rispetto della privacy delle persone che avremmo incontrato. …poi, per me il corpo è “tempio sacro” e non ho mai permesso ad alcuno di toccarmi, figuriamoci di spogliarmi o fare le cose che sono state dette in TV dalle “vittime” (mi bastava allontanarmi o allontanare la mano di chi avevo di fronte per dire che non volevo essere toccata in alcun modo, senza nemmeno parlare). Nemmeno un bacio ho mai permesso. E’ riservato solo a chi ho scelto come compagno di strada.
Io ho toccato da sopra i vestiti delle altre persone. Non per morbosità, non mi appartiene. Scelsi di permettermi di rivivere qualcosa che non so cosa sia stato ma che mi apparteneva. Forse da qualche parte, in qualche tempo, era già vissuto. E’ stato un “dolore” per me nella misura in cui io avevo di me un’idea e seguendo questo non pensare, ho scoperto di essere almeno in parte differente da quell’idea. Ne parlai subito con il mio fidanzato e le cose andarono a posto rapidamente.

Sempre con gioia ricordo la lotta degli uomini, o l’intensivo sulla morte. Ah, l’intensivo sulla morte! …Esperienza memorabile, per me che cammino sempre incerta nella scelta tra lei e la vita. Nemmeno a dirlo che anche qui delle bare o delle sepolture fino al collo menzionate in TV non ne ho visto nemmeno l’ombra.
Ricordo la gioia del suono della campanella che ciascuno di noi lanciava verso il Cielo in segno di ringraziamento.
Ricordo la pace fatta con mia madre dentro il mio cuore dopo una notte a cercare di scriverle una lettera di commiato che usciva sempre piena di risentimento. E la pace vera e le lacrime e gli abbracci che ci scambiammo con lei quando, tornata dall’intensivo, andai a trovarla. Posso dire che da quel giorno, ho incominciato ad avere una relazione con mia madre. Credo che non avrei mai potuto arrivarci senza tutto il cammino percorso prima.
Ricordo di aver guardato in faccia il mio desiderio di essere morta e di aver scelto che non era ancora il tempo, perché desideravo (per la prima volta) tornare dalla mia famiglia.

Ricordo anche le messe di quel povero sacerdote messo senza ritegno alla gogna in TV.
Io lo ringrazio pubblicamente con tutto il mio cuore, qui ed ora perché al di là delle sue debolezze di uomo, in ogni confessione ed in ogni incontro non ha fatto che essere davvero “sacerdote di Cristo”: non ha fatto altro che ricordarmi e testimoniare con il suo modo di essere ed il suo rispetto per l’altro e per la vita, che D i o è A m o r e e che D i o c i a m a p e r q u e l l o c h e s i a m o, così come siamo. Lui ci ha creati e ci conosce più in profondità di noi stessi. Ci chiede di amarci come lui ci ama.
Da qui per me è stato un “doloroso” cammino di uscita dagli inferi. Doloroso perché riemerge tutto il tempo in cui non ti sei amato e tutta la difficoltà di farlo nonostante i limiti che ti riconosci nella carne. Dagli inferi perché la distanza dal godere il tepore dell’amore di Dio è di per se stessa un inferno scuro nel quale non trovi pace.

Ecco, mi permetto di fare riferimento a quel brano del Vangelo che fu oggetto dell’omelia della messa alla quale partecipai in S. Eustorgio, quello degli uomini che, saputo che Gesù era in una casa e non potendo raggiungerlo dalla porta per la gran folla radunatasi, praticano un’apertura nel tetto e vi calano un paralitico bloccato sul suo lettino affinché il Cristo lo possa guarire.
Se quella casa sono io, e Cristo è nel mio intimo, che mi attende, in Arkéon ho incontrato degli amici che mi hanno aiutata ad aprire una breccia nella mia corazza perché io potessi “rientrare in me stessa” e farmi “sanare le ferite dell’anima” dal Suo Amore.

Grazie infinite.