25/03/09

Mercoledì 25 Marzo 2009
Cari tutti, riporto una poesia di Bruno Tognolini che trovo decisamente bella anche se non semplicissima. A mio parere tocca corde della relazione tra chi insegna e chi apprende che non suonano solo per maestro-discente ma anche per genitore-figlio. A tutti noi la offro:
“Maestra insegnami il fiore e il frutto. Col tempo ti insegnerò tutto. Insegnami fino al profondo dei mari. Ti insegnerò fino a dove tu impari. Insegnami il cielo più che si può. Ti insegno fino dove io so. E dove non sai? Da lì andiamo insieme. Maestra e scolaro dall’albero al seme insegno ed impara insieme perché io insegno se imparo con te.”
(Bruno Tognolini)
Buona notte.

23/03/09

Domenica 22 Marzo 2009
Cari tutti, ieri sera sono andata a letto un po’ più serena e la febbre ed il mal di gola sembrano avermi dato un po’ di tregua. E’ vero che mi sono alzata da poco e che è ancora presto (sono le 7:50 c.ca)! Speriamo bene. Pensavo a voi, a chi di voi capiterà tra queste righe, cosa lascerà scritto… C’è il dubbio che questo mio “esperimento” sia in realtà proteggere la mia solitudine. Mi dico: «Ma non è che risolvi molto! Parli a volto scoperto solo nel vuoto. Forse nessuno leggerà mai il messaggio di questa bottiglia affidata ad un Oceano troppo grande». Non lo so. Mi fido. Nella mia vita ho sentito sempre “una mano sulla testa” che mi protegge e mi guida. Quando ho avuto domande importanti per me, ma alle quali non sapevo dove trovare la risposta, quello che per me è Dio (per altri sarà Allah, Adonai, il Grande Spirito, l’Universo, e quant’altro che non conosco) mi ha sempre sorretta ed accompagnata là dove altri miei simili avevano intrapreso la stessa ricerca. Mi ha dato strumenti e luce per trovare le risposte. Mi ha risposto, in un certo senso. Io, come forse molte altre donne, ebbi (da bambina e poi da ragazza fin più in là negli anni) un pessimo rapporto con la mia famiglia ma soprattutto con mia madre. La odiavo visceralmente. Sentivo ostili le mie sorelle per quanto a loro, almeno a tratti, volessi veramente bene. Mi sentivo come “innamorata” di mio padre, era il mio uomo ideale ed allo stesso tempo non ne sopportavo molti modi di fare e pensare, ne vedevo i limiti… e non riuscivo ad uscire da questa empasse che mi faceva soffrire disperatamente! Anche perché la pessima relazione con mamma era dominante su tutto. Il peggio è che mi sentivo io la causa di tutto questo. Mi sentivo “cattiva”, disobbediente. Ah, se fossi stata più docile forse sarebbe stato più facile! Se non avessi sempre cercato di capire, di verificare… Se non avessi messo in dubbio le idee e gli atteggiamenti della mia famiglia, pensato diverso da loro, se non avessi sempre messo il dito nei difetti, se non avessi sempre cercato amici miei che a detta di mia madre “mi plagiavano” nella misura in cui pensavano –come già me- diversamente dai miei… Chiesi aiuto a Dio. Incappai in un’amica che mi diede una prima boccata di ossigeno ed ebbi la forza di iscrivermi a psicologia… No, non per aiutare gli altri… figuriamoci! Come potrebbe una zoppa ed guercia aiutare gli altri solo un po’ miopi a trovare la loro strada!!! No, era per capire qualcosa di me. Per cominciare a dipanare una matassa veramente troppo aggrovigliata. Passavo le lezioni più “toccanti” seduta in fondo all’aula senza riuscire a smettere di piangere nella disperata (quanto vana) speranza che nessuno mi vedesse. Lo stesso mi capitava in aula studio: per ogni pagina letta c’era quasi un quaderno di lettere a Dio scritte tra le lacrime. Com’è prevedibile i miei studi non sono andati molto avanti. Però la comprensione e l’ascolto di me sì. Avevo iniziato a parlare con un altro da me (Dio in questo caso) del mio cuore. Poi cominciai a lavorare. Il dolore accecante e paralizzante di prima aveva lasciato ormai spazio ad una semplice domanda: perché odio tanto mia madre e mi sento come innamorata di mio padre? Una psicologa della Asl, ormai alla soglia del pensionamento, archiviò la mia domanda con un “perché non sei ancora adulta”. Grazie tante. In effetti era vero, ma quella era forse il punto di arrivo. A me mancava il discorso, da cui veniva fuori quel riassunto! Gli impegni ormai più seri di lavoro mi portarono fuori città e, non pacificata dalla risposta della psicologa, rivolsi la stessa domanda a Dio. Dopo non molto incrociai un vecchissimo amico che non vedevo da anni e che mi invitò alla presentazione di un seminario di un percorso di crescita personale. Speravo nessuno mi vedesse nel grande cerchio di persone lì presenti. Mi parve che molte fossero in cerca di qualcosa. Soprattutto, stando ad ascoltare le condivisioni degli altri, cominciai a capire qualcosa della mia storia. Vidi che io non ero l’unica ad aver vissuto una storia del genere. Mi sentii accolta per quella che ero e non giudicata. Sentivo rispettato il mio continuo silenzioso stare in disparte ed ascoltare senza raccontare alcunché di me. Pian piano, goccia dopo goccia, cominciai a scaldare il gelo del mio cuore. Dopo anni di ascolto di me e degli altri, con l’amore di chi mi stava accanto e tanto dolore nel mettere le mani in sofferenze così antiche e provare a condividerle alla mia famiglia di origine, ho proprio sentito che quell’odio per mia madre era in realtà un’immensa coperta sull’amore sterminato che come figlia provo per lei. E’ come se pian piano le incomprensioni ed il dolore che nascono dall’egoismo e dalle malattie della relazione, diventano talmente pesanti che possono essere lenite solo dalla rabbia. La mia rabbia accecava la mia capacità di riconoscere e condividere il mio dolore e quindi l’amore. Chiaro che un bambino ama chi gli dà la vita e lo sostenta. Per questo è disposto a rinunciare a sé, anche a morire per chi lo genera. Ed in effetti un po’ morta la sono stata per tantissimo tempo. Per non scardinare tutta la famiglia ho rinunciato a sentire, a far vivere il mio cuore. Ho recentemente trovato un brano che secondo me descrive benissimo tutto questo. Purtroppo non so chi l’ha scritto perché era sul retro di una fotocopia datami da chissàchi, chissàquando ed archiviata tra mille altre carte che colleziono. Lo riporto:
“Armando era una saggio. Aveva capito il senso della vita ed il valore della conoscenza. Tuttavia la sua esistenza fu piuttosto difficile, perché Armando era uno schiavo. fu venduto ad un ricco signorotto arabo, che lo impegnò in mille servizi. In breve tempo, però, il padrone riconobbe le qualità di Armando e lo schiavo divenne il suo preferito. L’uomo non assaggiava cibo, se prima non lo aveva condiviso con lui e lo faceva per dimostrare ad Armando un sincero apprezzamento delle sue qualità. D’altra parte egli aveva deciso di liberare lo schiavo, non appena se ne fosse presentata l’occasione. «Uno come Armando non deve vivere in cattività. Ma gli renderò la libertà solo quando scoprirò che la sua gratitudine nei miei confronti è immensa». Un giorno, i mercanti d’una città vicina portarono al signorotto una partita d’angurie, assai succulente a prima vista. Come al solito, prima di mangiarle l’uomo le sottopose al giudizio di Armando. Lo schiavo mangiò una porzione di anguria con grande partecipazione. Sembrava proprio, a giudicare dal suo atteggiamento, che il frutto fosse prelibato. Così il signorotto decise, senza esitare, di mangiare la sua parte. Dopo pochi istanti, però, dovette smettere. Disgustato, stava addirittura per sputare l’anguria! L’uomo andò su tutte le furie, e se la prese con lo schiavo. La possibilità della liberazione per Armando stava forse per svanire? «Quest’anguria ha un sapore insopportabile tanto è acre! Perché non me l’hai detto, Armando? Pensavo fossi sempre sincero con me!» Umilmente, lo schiavo rispose: «Padrone! Sono sempre sincero con te. Ma non puoi chiedermi di criticare le cose che mi offri. Non oso farlo, perché sarei un ingrato. Io dipendo da te e dal tuo amore per me. I tuoi doni saranno sempre bene accetti, anche se riguardassero cose ripugnanti. D’altra parte, per me non sarebbero tali. Tutto ciò che mi dai è buono, poiché lo offri generosamente». Il signorotto capì che Armando aveva sacrificato il proprio gusto personale in suo favore e capì che era giunto il momento di liberare lo schiavo fedele”.
Per quello che ho potuto osservare noi da bambini funzioniamo un po’ come Armando: accettiamo tutte le cose offerteci perché ne sentiamo (o presupponiamo) la buona fede e l’amore. Alle volte c’è l’amore per se stessi più che per l’altro che spinge a quel dono… ed alla lunga un bambino lo sente e questo, unito alla frustrazione per il sentimento di ingiustizia che pian piano si va formando, crea la catena che io ho sulla mia pelle sperimentato… e purtroppo “il signorotto” di turno che ha la fortuna di accorgersi di quell’abnegazione, non sempre è tanto libero da se stesso da concedere la libertà da sé all’altro… Prego il Cielo che mi consenta sempre di ascoltare l’emozione di risposta dei bambini e di chi incontro e non solo me stessa.
Sabato 21 Marzo 2009 Equinozio di primavera!
Eccomi qua, di fronte a questo foglio vuoto come di fronte a voi che non conoscete nulla di me… né io di voi. E’ un periodo che mi gira per la mente e per il cuore una domanda, un dubbio, un qualcosa che non so definire che riguarda il parlare, l’esprimermi. I mal di gola, i suoi incessanti bruciori, i discorsi che sento e che leggo, tutto mi riconduce qui: a questo foglio bianco su cui potrei esprimermi ed alla mia ritrosìa nel farlo. Parlare di quello che sento a tratti mi terrorizza. Talvolta anche con le persone a me più intime, ma soprattutto con gli amici, le amiche, le persone che incuriosite mi si avvicinano. Abbassare il velo (una volta era un muro fortificato!) che separa la mia anima dagli altri mi spaventa moltissimo. Mi espone all’incomprensione, alla derisione (…il sentirmi ridicola!), al sentirmi noiosa o “pesante”. Mi ci vuole tempo per scoprire l’evento scatenante di questi timori... ed una volta trovato l’incipit non è che automaticamente mi si scioglie la lingua! La paura irrazionale può restarmi a lungo, forse sempre. Deve intervenire la scelta quotidiana. L’ho sperimentato anche in altre cose: funziono così! A volte c’è anche un senso di inutilità del dire. A che serve parlare, dire la mia? Talvolta sull’onda dell’entusiasmo non freno la lingua in tempo e la creatività ha il sopravvento: parlo, esprimo le mie idee, i miei progetti… e la reazione che incontro negli occhi e nel corpo degli altri quando non direttamente nelle parole e nei fatti è un ritrarsi. Una diga che argini quel fiume in piena uscito da chissà dove in maniera inaspettata. Forse è solo spiazzamento ma pian piano imparo a parlare sempre meno e solo quando esplicitamente richiesto. E’ difficile dire solo quello che gli altri vorrebbero sentire come quantità e qualità. Io per esempio non mi reputo molto spiritosa. Invece le battute sarebbero un parlare graditissimo dai miei interlocutori medi! Forse perché permettono di stare sul superficiale. Forse perché scoprono un pezzetto di cuore senza doversi mettere troppo in gioco. Non lo so. Il parlare di cui ho sete io è la narrazione del cuore, della propria storia, della propria esperienza e della comprensione di essa per limitata e parziale che sia. E’ quel parlare che non chiede in risposta un :«Sì, giusto!» o «No, sbagli perché…». E’ quel parlare che parla a se stesso e fa crescere e che chiede al silenzio ed all’accoglienza di fargli da specchio perché si possa conoscere. Una volta in un libro ho letto (questo è quello che ho capito e che ricordo, almeno) che le prime parole del bambino catalogano il mondo, poi glie lo fanno conoscere. Infine nasce il pensiero e quelle parole iniziano a parlare da sé e di sé. Fioriscono i pensieri. Sono io che mi conosco con quelle parole nel momento stesso in cui le pronuncio… e poi dico che sì, interessante questo, non ci avevo mai pensato! A me capita spesso. E’ quel parlare che ha sete di altri cuori che parlano di sé, della loro vita, della loro esperienza, della loro storia. Di quel contatto che è conoscenza di episodi. Pian piano tanti episodi dipingono un’anima. Il tacere lo conosco. Vorrei provare a raccontarmi per vedere che succede al di là di quel velo se mi allungo a toccare e farmi toccare dai miei simili. E’ una speranza per le persone di cui mi prendo cura: che ci si possa realmente mettere in gioco per crescere insieme a qualunque età. Questo chiedo a chi avrà la voglia di entrare qui: ascolto e rispetto. Senza giudizio nel limite di quello che è capace. Questo offro a chi avrà voglia di scrivere qui: ascolto e rispetto. Senza giudizio nel limite di quello che sono capace. Come compagni di preghiera o di una passeggiata in montagna in ascolto ciascuno di quello che il vento ed il proprio cuore suggerisce. Ed ha voglia di narrare.