23/03/09

Domenica 22 Marzo 2009
Cari tutti, ieri sera sono andata a letto un po’ più serena e la febbre ed il mal di gola sembrano avermi dato un po’ di tregua. E’ vero che mi sono alzata da poco e che è ancora presto (sono le 7:50 c.ca)! Speriamo bene. Pensavo a voi, a chi di voi capiterà tra queste righe, cosa lascerà scritto… C’è il dubbio che questo mio “esperimento” sia in realtà proteggere la mia solitudine. Mi dico: «Ma non è che risolvi molto! Parli a volto scoperto solo nel vuoto. Forse nessuno leggerà mai il messaggio di questa bottiglia affidata ad un Oceano troppo grande». Non lo so. Mi fido. Nella mia vita ho sentito sempre “una mano sulla testa” che mi protegge e mi guida. Quando ho avuto domande importanti per me, ma alle quali non sapevo dove trovare la risposta, quello che per me è Dio (per altri sarà Allah, Adonai, il Grande Spirito, l’Universo, e quant’altro che non conosco) mi ha sempre sorretta ed accompagnata là dove altri miei simili avevano intrapreso la stessa ricerca. Mi ha dato strumenti e luce per trovare le risposte. Mi ha risposto, in un certo senso. Io, come forse molte altre donne, ebbi (da bambina e poi da ragazza fin più in là negli anni) un pessimo rapporto con la mia famiglia ma soprattutto con mia madre. La odiavo visceralmente. Sentivo ostili le mie sorelle per quanto a loro, almeno a tratti, volessi veramente bene. Mi sentivo come “innamorata” di mio padre, era il mio uomo ideale ed allo stesso tempo non ne sopportavo molti modi di fare e pensare, ne vedevo i limiti… e non riuscivo ad uscire da questa empasse che mi faceva soffrire disperatamente! Anche perché la pessima relazione con mamma era dominante su tutto. Il peggio è che mi sentivo io la causa di tutto questo. Mi sentivo “cattiva”, disobbediente. Ah, se fossi stata più docile forse sarebbe stato più facile! Se non avessi sempre cercato di capire, di verificare… Se non avessi messo in dubbio le idee e gli atteggiamenti della mia famiglia, pensato diverso da loro, se non avessi sempre messo il dito nei difetti, se non avessi sempre cercato amici miei che a detta di mia madre “mi plagiavano” nella misura in cui pensavano –come già me- diversamente dai miei… Chiesi aiuto a Dio. Incappai in un’amica che mi diede una prima boccata di ossigeno ed ebbi la forza di iscrivermi a psicologia… No, non per aiutare gli altri… figuriamoci! Come potrebbe una zoppa ed guercia aiutare gli altri solo un po’ miopi a trovare la loro strada!!! No, era per capire qualcosa di me. Per cominciare a dipanare una matassa veramente troppo aggrovigliata. Passavo le lezioni più “toccanti” seduta in fondo all’aula senza riuscire a smettere di piangere nella disperata (quanto vana) speranza che nessuno mi vedesse. Lo stesso mi capitava in aula studio: per ogni pagina letta c’era quasi un quaderno di lettere a Dio scritte tra le lacrime. Com’è prevedibile i miei studi non sono andati molto avanti. Però la comprensione e l’ascolto di me sì. Avevo iniziato a parlare con un altro da me (Dio in questo caso) del mio cuore. Poi cominciai a lavorare. Il dolore accecante e paralizzante di prima aveva lasciato ormai spazio ad una semplice domanda: perché odio tanto mia madre e mi sento come innamorata di mio padre? Una psicologa della Asl, ormai alla soglia del pensionamento, archiviò la mia domanda con un “perché non sei ancora adulta”. Grazie tante. In effetti era vero, ma quella era forse il punto di arrivo. A me mancava il discorso, da cui veniva fuori quel riassunto! Gli impegni ormai più seri di lavoro mi portarono fuori città e, non pacificata dalla risposta della psicologa, rivolsi la stessa domanda a Dio. Dopo non molto incrociai un vecchissimo amico che non vedevo da anni e che mi invitò alla presentazione di un seminario di un percorso di crescita personale. Speravo nessuno mi vedesse nel grande cerchio di persone lì presenti. Mi parve che molte fossero in cerca di qualcosa. Soprattutto, stando ad ascoltare le condivisioni degli altri, cominciai a capire qualcosa della mia storia. Vidi che io non ero l’unica ad aver vissuto una storia del genere. Mi sentii accolta per quella che ero e non giudicata. Sentivo rispettato il mio continuo silenzioso stare in disparte ed ascoltare senza raccontare alcunché di me. Pian piano, goccia dopo goccia, cominciai a scaldare il gelo del mio cuore. Dopo anni di ascolto di me e degli altri, con l’amore di chi mi stava accanto e tanto dolore nel mettere le mani in sofferenze così antiche e provare a condividerle alla mia famiglia di origine, ho proprio sentito che quell’odio per mia madre era in realtà un’immensa coperta sull’amore sterminato che come figlia provo per lei. E’ come se pian piano le incomprensioni ed il dolore che nascono dall’egoismo e dalle malattie della relazione, diventano talmente pesanti che possono essere lenite solo dalla rabbia. La mia rabbia accecava la mia capacità di riconoscere e condividere il mio dolore e quindi l’amore. Chiaro che un bambino ama chi gli dà la vita e lo sostenta. Per questo è disposto a rinunciare a sé, anche a morire per chi lo genera. Ed in effetti un po’ morta la sono stata per tantissimo tempo. Per non scardinare tutta la famiglia ho rinunciato a sentire, a far vivere il mio cuore. Ho recentemente trovato un brano che secondo me descrive benissimo tutto questo. Purtroppo non so chi l’ha scritto perché era sul retro di una fotocopia datami da chissàchi, chissàquando ed archiviata tra mille altre carte che colleziono. Lo riporto:
“Armando era una saggio. Aveva capito il senso della vita ed il valore della conoscenza. Tuttavia la sua esistenza fu piuttosto difficile, perché Armando era uno schiavo. fu venduto ad un ricco signorotto arabo, che lo impegnò in mille servizi. In breve tempo, però, il padrone riconobbe le qualità di Armando e lo schiavo divenne il suo preferito. L’uomo non assaggiava cibo, se prima non lo aveva condiviso con lui e lo faceva per dimostrare ad Armando un sincero apprezzamento delle sue qualità. D’altra parte egli aveva deciso di liberare lo schiavo, non appena se ne fosse presentata l’occasione. «Uno come Armando non deve vivere in cattività. Ma gli renderò la libertà solo quando scoprirò che la sua gratitudine nei miei confronti è immensa». Un giorno, i mercanti d’una città vicina portarono al signorotto una partita d’angurie, assai succulente a prima vista. Come al solito, prima di mangiarle l’uomo le sottopose al giudizio di Armando. Lo schiavo mangiò una porzione di anguria con grande partecipazione. Sembrava proprio, a giudicare dal suo atteggiamento, che il frutto fosse prelibato. Così il signorotto decise, senza esitare, di mangiare la sua parte. Dopo pochi istanti, però, dovette smettere. Disgustato, stava addirittura per sputare l’anguria! L’uomo andò su tutte le furie, e se la prese con lo schiavo. La possibilità della liberazione per Armando stava forse per svanire? «Quest’anguria ha un sapore insopportabile tanto è acre! Perché non me l’hai detto, Armando? Pensavo fossi sempre sincero con me!» Umilmente, lo schiavo rispose: «Padrone! Sono sempre sincero con te. Ma non puoi chiedermi di criticare le cose che mi offri. Non oso farlo, perché sarei un ingrato. Io dipendo da te e dal tuo amore per me. I tuoi doni saranno sempre bene accetti, anche se riguardassero cose ripugnanti. D’altra parte, per me non sarebbero tali. Tutto ciò che mi dai è buono, poiché lo offri generosamente». Il signorotto capì che Armando aveva sacrificato il proprio gusto personale in suo favore e capì che era giunto il momento di liberare lo schiavo fedele”.
Per quello che ho potuto osservare noi da bambini funzioniamo un po’ come Armando: accettiamo tutte le cose offerteci perché ne sentiamo (o presupponiamo) la buona fede e l’amore. Alle volte c’è l’amore per se stessi più che per l’altro che spinge a quel dono… ed alla lunga un bambino lo sente e questo, unito alla frustrazione per il sentimento di ingiustizia che pian piano si va formando, crea la catena che io ho sulla mia pelle sperimentato… e purtroppo “il signorotto” di turno che ha la fortuna di accorgersi di quell’abnegazione, non sempre è tanto libero da se stesso da concedere la libertà da sé all’altro… Prego il Cielo che mi consenta sempre di ascoltare l’emozione di risposta dei bambini e di chi incontro e non solo me stessa.

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