02/04/09

Giovedì 02 Aprile 2009
Cari tutti, riporto qui per intero (perché per me è importante farlo), un commento che ho lasciato su un blog che ho visitato di recente ad un post del 13/03/2009 intitolato "Dalla crisi della maternità alla questione filiale". “Caro Sudore&Pioggia, mi permetto di condividere con Te e con chi siede in questo cerchio con noi, ora, alcuni “ma…” in merito a quanto da te scritto. Chiedo scusa in anticipo per la lunghezza del testo. 1) Conosco molte donne (collaboratrici domestiche, sportelliste, segretarie, contabili, infermiere,…: impieghi comuni di medio livello…) che vivono il loro lavoro non come rivalsa sul maschile ma come sostegno per la loro famiglia. Forse per un osservatore esterno questo contributo non è economico come talvolta noi lavoratrici crediamo ma consiste più nel nostro benessere psichico che può derivare dall’impellenza di un’ulteriore espressione che non riesce ad esaurirsi tra le mura domestiche, dalla paura di essere un peso (…ed io ne so qualcosa) o di essere troppo dipendenti o ancora di “spegnersi il cervello” o buttare anni di studio pagati a caro prezzo dalla famiglia di origine… ma comunque alla base non c’è il conflitto o la rivalsa sul coniuge: c’è il “fare la propria parte”… forse questa scelta merita rispetto nonostante tutto. 2) E’ molto carina la storiella Zen di quel monaco che tutte le notti era tormentato da un mostruoso e pericolosissimo ragno con il quale ingaggiava un’estenuante lotta. Un giorno chiese aiuto al suo maestro che gli suggerì, al ripresentarsi del nemico, di prendere un pennello e disegnargli un cerchio sulla pancia… E la mattina seguente trovò un bel cerchio disegnato intorno al proprio ombelico!!! Talvolta temo che facciamo proprio così tutti quanti: carichiamo chi più ci è vicino di paure e proiezioni solo nostre. A seconda di come viviamo la coppia ed il lavoro domestico o fuori casa, il mantra sarà “stai a casa, i figli prima di tutto!” o “mantieni la tua indipendenza, cercati un lavoro”. La responsabilità di ciascuno, secondo me, è tenere ben ferma nella memoria e nella carne la traccia del proprio vissuto e cercare, nel limite delle nostre capacità, non solo di comprendere da dove viene, ma anche di sciogliere la catena e non scaricarlo a valle ripetendolo. Le famiglie di origine – come pure noi, se non ci prestiamo attenzione - resistono a qualunque cambiamento che vada in direzioni sconosciute o non sperimentate. E’ il “Chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova!” E’ un istinto di sopravvivenza che ha custodito la razza umana fino ad oggi. In realtà forse ciascuno deve solo avere la libertà di precorrere la propria strada, di sperimentarsi senza che questo gravi sugli altri. 2 ½) …Se una donna “si realizza” nella cura della prole non corre il rischio di riporre su di loro troppe aspettative, troppa l’attenzione? Diventa troppo il bisogno che quella dedizione porti frutto! E’ il frutto che io mi aspetto per sentirmi realizzata, perché quella mia “dedizione” non sia stata vana, non quello che la piantina di fronte a me può realmente dare… E quando i figli iniziano ad avere un fisiologico bisogno del loro spazio che rimarrà di quelle devote madri? Che sentimenti condiranno il nutrimento che porta in tavola la sera? Riuscirà a lasciare aprire le ali? O di qua e di là passerà più o meno criptato il “non mi lasciare sola, io ti ho fatto per me!” (che purtroppo ho sentito spesso dire alle madri di una volta che erano obbligate a stare a casa…) Forse a quel punto è meglio una madre un po’ meno presente ma che si realizza da se stessa… Io ho tentato di farlo tramite mio marito, e per fortuna che me ne sono accorta in tempo perché stavo sfasciando la mia famiglia. Non oso immaginare che succede se capita con un bambino! Per inciso: forse anche ai padri può capitare qualcosa di simile (penso a quelli che desiderano e/o premono più o meno apertamente perché la progenie imbocchi un corso di studio piuttosto che un altro o sposi una donna piuttosto che un’altra…) 3) Pensa che meraviglia se davvero fosse l’intera Società a prendersi carico dei bambini, a considerare se stessa (perché questo sono i bambini: noi stessi solo un po’ di tempo fa) un tesoro prezioso di cui avere cura: quello che io madre/padre non so o non posso darti non ti verrà a mancare perché ci saranno altri che lo sanno e lo possono fare… e così lo dono anche a me stessa. Forse sarebbe un volerci un poco più bene, no? 4) Esiste l’“istinto materno” inteso come quella spinta innata ed istintiva di ogni donna a prendersi cura della prole? Per la mia piccola esperienza la paternità e la maternità mi paiono più come stati mentali che non sempre vengono a ruota dopo il parto: non tutte le donne che vedo generare un figlio sono o sono-portate-per-essere madri. Capita, alle volte, che procreiamo solo per mettere una tacca nell’elenco delle esperienze di una vita o perché ci è capitato. Alle volte semplicemente scegliamo di non mettere le mani in quello che la creaturina appena uscita dalla nostra pancia porta fuori con sé. Non farlo forse è una scelta che, per quanto dolorosa per chi la subisce, va rispettata: a torto o a ragione ci mantiene sufficientemente in equilibrio. In questo senso trovo un’ipocrisia il “prima era più bello!” Penso alle epoche precedenti: c’erano i pedagoghi, le bàlie e le nutrici. C’erano delle nonne o zie o sorelle più o meno portate per l’accudimento dei pargoli che lo facevano per le donne che erano nei campi o alle feste. C’erano i collegi ed i conventi. Ci sono gli asili e le tate. Dov’è quindi lo scandalo? Provo a calarmi nei panni di una donna che (nel caso peggiore) ha semplicemente “la smania del successo” e che per caso o per esperienza è incinta: se fossi costretta a stare in casa a prendermi cura di lui/lei (“per colpa sua”) o abortirei finché mi è possibile o forse gli lascio una buona possibilità se trovo per lui/lei un ottimo asilo otto ore al giorno. Sempre meglio che una pessima madre (per giunta che magari va fuori di testa) otto ore al giorno! Magari quella pessima madre è un ottimo medico o un’ottima manager! 4 ½) Una cosa bella è che mi è anche capitato di incontrare degli splendidi Padri che riescono (seppure con la sofferenza di chi cammina con una gamba sola) a supplire all’assenza più o meno deliberata della moglie (che amano moltissimo) attingendo anche al loro istinto materno… Nonostante il pregiudizio delle altre donne i loro figli sono molto equilibrati. In fondo, forse, è la stessa sofferenza di quelle Madri che fanno anche da padre! 5) Mi rendo conto che, per una digiuna di bambini e dei loro meccanismi, trovarsi “madre”, sola in casa perché il marito è al lavoro, con la responsabilità di provvedere ad una vera e propria “idrovora di attenzione ed energie” deve essere traumatico. Chi può biasimarla se fugge a gambe levate lasciando la creatura a qualcun altro? Sembra di non poter staccare mai, che “se io non ci sono muore”: non lascia nemmeno il tempo per una doccia!... E poi quel pianto perfora i timpani e squarta la pancia. Riesce a sfondare la barriera del suono per non so quanto tempo con una forza ed una resistenza che non si capisce da dove vengano fuori visti i pochi centimetri di lunghezza! Mi sono fatta l’idea che sia la paura del bambino che viene fuori tramite le nostre labbra, come se fossero dei ventriloqui e noi il loro pupazzo. Tant’è ce ne facciamo risucchiare. Alle volte è per questioni organizzative, altre per inesperienza. Altre perché non si può accettare quel sano distacco che consente la lucidità: che ricorda a noi che dovremmo essere gli adulti, i “sopravvissuti” a quella originaria paura, che non siamo indispensabili. Che non si muore per 5’ di attesa o per un “no”. Che anche venti minuti di pianto per un desiderio non realizzato non uccidono nessuno se accanto a quella fermezza c’è l’accoglienza del dolore dell’altro. Forse sono questi i famosi “no” che fanno crescere di cui tanto parlano gli specialisti! Mi viene sempre in mente quell’espressione “medico pietoso non guarisce l’ammalato” che è ancora più chiara nell’accezione più colorita: “medico pietoso fa la piaga purulenta!” Le mamme sono trascurate: - io ero trascurata anche prima dell’arrivo dei figli o perché davo priorità ad altro o per motivi miei. I figli non credo che mi cambino in meglio… Forse possono diventare un alibi per la mia trascuratezza (ammesso che io la percepisca come tale)! - io mi curavo prima dei figli, era importante per me per essere in pace con me stessa, per amarmi. Forse ho “cambiato programma” e non sto più vivendo la mia vita ma mi sto immedesimando in quella di qualcun'altra dalla quale ho appreso l’equazione madre= trascuratezza! … ma non è affatto detto! Non credo che saranno i figli a non permettermi di amarmi perché non posso dare/insegnare ad altri quello che non ho/non so. Veramente ritengo che molto dipenda dalla mia intenzione… e poi i modelli della TV, delle passerelle e delle riviste non sono necessariamente quelli delle strade. Siamo noi che abbiamo il telecomando in mano, non viceversa… anche se - lo so - è istintivo e molto più comodo dare la responsabilità agli altri… L’importante è che io sia me stessa e stia bene con me stessa. A quel punto con gli altri tutto è un po’ più facile! 6) Infine eccomi. Io sono stata sia lavoratrice per altri, sia esclusivamente per la mia famiglia (=casalinga). Mi sono piaciute entrambe le fasi della mia vita. Erano ciò di cui avevo bisogno nonostante tutto quello che dicessero gli altri. C’erano tanta fuga e tanta paura nell’uno quanto nell’altro. In entrambi c’era errore, in entrambi ricerca. Entrambi sono stati “veri” e li difendo. Della dipendente di azienda ricordo la passione, la curiosità e la gioia che impegna anima e corpo di quando stai imparando una professione. Anche la stanchezza estrema. Ricordo le soddisfazioni professionali ed umane. Lo scoprire mie abilità non sperimentate. Ricordo la solitudine. Ricordo gli errori. Ricordo la mancanza di tempo per la riflessione, per la ricerca della mia identità al di fuori del ruolo. La fatica del gestire casa e lavoro, il senso di divisione. Da tutto questo - e da altro - la scelta di dedicarmi esclusivamente alla famiglia ed alla casa. Della casalinga ricordo la fatica e la soddisfazione della solitudine tra le pareti domestiche. Di quei muri che riflettono solo te stessa spogliandoti dei titoli, delle lauree e delle onorificenze guadagnate sul campo. Di fronte al negoziante di turno sei una persona come tutte le altre. Almeno all’inizio. Ricordo lo “spogliamento”, lo sparire del presunto “io” per conoscere e dare spazio al presunto “noi”. Ricordo la costruzione di una “casa” a partire da un appartamento. Di un vicinato a partire da semplici inquilini di condominio. Di una moglie a partire da una sposa. Ricordo con gioia lo sperimentarmi anche nelle arti miticamente ascritte alle nonne: cucina, cucito (e simili), cura. Certo, dopo un po’ il ripetere come una meditazione o una preghiera sempre gli stessi gesti offrendoli ai familiari ed a Dio ha cominciato a non bastarmi. La sensazione (l’errore) anche non coscientemente trasmessomi da mia madre e da mia suocera, era nell’attribuire al mio lavoro meno valore di quello che attribuivo al lavoro “esterno” del mio compagno di viaggio. Quell’errore che fa sì che dopo una lunga giornata di lavoro densa per entrambi, lui ha il diritto di tornare a casa e sedersi sul divano mentre tu ti senti il dovere di stare in piedi fino a tardi per cucinare, riassettare e stirare servendo tutti quanti. Perché loro sono tornati da fuori mentre tu sei stata a casa (!) tutto il giorno e potevi prenderti le pause quando volevi (!!!). (Per inciso ho letto tra i vari post qui lasciati che anche altre donne hanno vissuto la stessa esperienza. Mi dispiace per loro, ma sono contenta che sia stata riconosciuta per quella che è – un errore di valutazione - e condivisa). Con il passare del tempo è comparso ed è diventato imperante il senso di inutilità che, nonostante il sostegno di chi già c’era passato, non sono riuscita a sciogliere e mi ha spinta nuovamente a lavorare fuori casa. C’era un pezzo di me individuo che non era cresciuto precedentemente. Mi sono anche detta che cambiare attività non aiuta a sciogliere i nodi: me li ritroverò se sono “cose mie”. Ma così è andata. In fondo non fa male cambiare prospettiva per risolvere un puzzle: se sono arenata da questa parte magari di là trovo la soluzione! La Provvidenza mi ha offerto un buon compromesso tra la casa (che mi sarebbe mancata troppo) ed il servizio ad altri. Ammetto che, nonostante le mie paure, sta portando frutti buoni di presenza anche in famiglia. Sento tanto lo spessore e la sicurezza che mi ha portato l’esperienza di casalinga quando sono a servizio di terzi. Sento tanto lo spessore e la sicurezza in me nonché gli impulsi di novità che il lavoro conto terzi porta nella nostra casa. Finalmente inizia ad essere un soffitto con due pareti che stanno in piedi ciascuna per conto suo… e questo non è poco. Forse quell’io che credetti di lasciare non era un io e quel noi che credevo di costruire non era un noi. Trovare un equilibrio è il mio obiettivo ancora lontanissimo da raggiungere. Da lontano sempre una stella: “scito te ipsum”. Un abbraccio e grazie dell’ospitalità. Pulvis”

2 commenti:

  1. Interessante, tanto interessante e con tanti spunti che non so se riuscirò a tirare fuori tutte le considerazioni che mi sono venute.

    Per prima cosa credo che il post a cui tu rispondevi volessere prendere in considerazione più che l'esperienza individuale, la tendenza della società e i modelli che vengono mostrati. Siamo d'accordo che i modelli della strada possono essere altri (anche io trovo tanta discrepanza a volte tra i modelli presentati e quelli che vedo nella vita reale) come può esserlo l'esperienza o la scelta personale. Però lo stesso non mi sentirei di sottovalutarne l'influenza anche solo per chi vorrebbe un'alternativa e non ha la fortuna che ho avuto io - e mi sembra anche tu - di trovarla.

    Questi modelli mi sembra che siano nocivi perchè insegnano - e non solo rispetto alla maternità - una forma di egoismo che va ben al di là dell'amore e del rispetto per se stessi. Mi sembra una forma di egoismo che si ferma all'oggi, che esclude un progetto ed un sacrificio. La mia esperienza di moglie (che bella immagine che hai trovato, quella di trasformarsi in moglie a partire da una sposa) è quella - partendo dall'amore - di un progetto, per il quale abbiamo fatto il patto di dare il meglio (e a volte anche il peggio) di noi stessi, di mettere prima il "noi" comune delle nostre apparenti esigenze personali e non per questo di annullarsi come se stessi, ma di far crescere il cuore e l'essere dell' altro e di noi stessi, come il bene più prezioso. E questo - almeno nella nostra esperienza - richiede sacrificio, ascolto, ma soprattutto pazienza (eh, la pazienza credo che sia la qualità di cui più ero digiuna e che più questa esperienza di vita familiare mi sta insegnando).

    Per non andare fuori tema del tuo post, non credo che il punto sia se si lavora o se si sta a casa o dove ci porta la nostra ricerca di noi stessi. La mia esperienza mi dice, come racconta la tua storia dello schiavo, che il problema di perdersi nell'altro inizia quando si esaurisce la ricerca di noi stessi.

    La mia fede nel mio amore per lui mi dice che anche se ricerco dentro di me ogni giorno la mia realizzazione come essere umano (e guai se non lo facessi!), a prescindere da come questa si esprime nella pratica, il mio essere me stessa mi porterà sempre di più nella direzione del nostro progetto (magari forse con limiti o con alti e bassi), non lontana. Ma se mi dovessi accorgere che mi porta lontana mi chiederei perchè, cercherei più profondamente, non soffocherei quello che sento, che non significa che andrei lontano da lui, ma mi ascolterei più profondamente
    dentro, cercherei di capirmi e di capire lui.

    La maternità credo possa essere un'estensione di questi concetti, almeno nella mia esperienza. Con una differenza importante. Per quanto sia vero che l'amore genitori-figli sia reciproco (e che scoperta inaspettata l'entità dell'amore che i figli hanno fin da piccolissimi verso i genitori!), per ora la vedo più come unidirezionale. Nel senso che penso che siano i genitori a dover essere responsabili verso i figli che hanno messo al mondo e a chiedere a se stessi di più di quello che chiedono ai loro figli. Il patto che ho con mio marito prevede delle "clausole" ;-) che ci fanno tenere duro quando l'altro ci "trascura" perchè sappiamo che l'altro può accogliere anche le nostre mancanze (e anzi, nessuno come lui/lei è capace di farlo continuando ad amarci infinitamente). Con i figli questo non credo sia possibile (nei limiti dell'umano ovviamente), almeno nella mia esperienza. Richiedono, come credo sia giusto, una presenza costante e reale (non puoi pensare ad altro quando ti occupi di loro) che davvero, quando sono molto piccoli, ti impedisce anche di fare la doccia. E quando crescono non è la doccia, ma è altro. Io non credo che questa sia una scelta, ma che sia come nutrirli. Una volta che ho fatto un figlio non posso scegliere se dargli da mangiare o no secondo come mi sento, devo farlo e basta perchè fa parte dell'averlo generato. Allo stesso modo credo - ma questa è davvero la mia esperienza di come vivo io la maternità - che lo stesso si applichi perfino alla mitragliatrice infinita di domande. Che non significa non dire no, non insegnare ad aspettare o concedere tutto. Significa non negarsi.

    Alla fine penso che la teoria sia molto più contorta e difficile della pratica, almeno nella mia testa.

    Credo che la cosa più importante sia non tanto quello che si fa o quello che ci si sente dentro (anche se ad un certo punto inizia a contare anche quello), ma soprattutto la capacità di farsi domande, di chiedersi se dove stiamo andando va bene non solo per noi, ma anche per tutte le persone che abbiamo coinvolto così profondamente ed indissolubilmente nella nostra vita.

    Forse sono stata un po' confusa, se è così scusami.

    Ciao e a presto.
    Fioridiarancio

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  2. No, chiarissima. Grazie :-)

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